Conversione della pena in lavoro di pubblica utilità? Si può (Cass. pen. sez. IV sent. 04/08/2015 n.
Il principio di diritto enunciato dalla Cassazione penale, nella sentenza n. 34090/2015, si compendia nella massima: “in tema di guida sotto l'influenza dell'alcool (art. 186 C.d.S., c. 2, lett. b)), ai fini della sostituzione della pena detentiva o pecuniaria irrogata per il predetto reato con quella del lavoro di pubblica utilità non è richiesto dalla legge che l'imputato debba indicare l'istituzione presso cui intende svolgere l'attività lavorativa e le modalità di esecuzione della misura, essendo sufficiente che egli non esprima la sua opposizione”.
Nell’art. 186 del C.d.S. si fa dunque strada una logica lato sensu partecipativa dell’imputato alle scelte sanzionatorie ormai da anni. In dettaglio, al c. 9-bis si contempla la possibilità, per il giudice, di sostituire la pena con quella del lavoro di pubblica utilità, se non vi è opposizione da parte dell’imputato. Non si fa differenza tra pena pecuniaria e detentiva, sicché lo strumento appare particolarmente coerente con l’ottica della benevolenza che sorregge l’impianto sanzionatorio previsto dal D.Lgs. 274/2000, sedes materiae di questa tipologia di pena. Ma chi fa cosa?
Nessun dubbio sulla titolarità del potere di operare la conversione: è il giudice; ma il giudice non è solo; egli può ritenere che vada disposta la sostituzione con la pena del lavoro di pubblica utilità, ma non per questo può provvedere secondo la propria discrezionalità, a meno che l’ostacolo previsto dalla legge per l’esercizio del suo potere non venga rimosso dall’imputato: il giudice deve accertare che non vi sia dissenso dell’imputato, acquisire la sua non opposizione.
La sentenza di appello è pertanto ritenuta viziata da un’interpretazione additiva, nella parte in cui aveva ritenuto necessario che l’imputato si esprimesse sul dove e sul come della misura. Di più, in mancanza di questi dettagli la Corte territoriale aveva escluso che si potesse procede alla conversione. Orbene, l’adesione della Cassazione alla contraria tesi dell’appellante è nel provvedimento annotato, laddove richiama che “la lettera della legge (..) non pretende che l’imputato manifesti il consenso alla sostituzione” (da intendersi come non necessario coinvolgimento nella scelta [dei dettagli] della conversione).
L’imputato viene coinvolto nella scelta sulla conversione della pena; si tratta di un coinvolgimento incompleto, che potremmo definire generico. Egli deve, semplicemente, non opporsi. Lo dice la legge; in claris non fit interpretatio; nondimeno, la Cassazione precisa che non sussiste alcun obbligo per l’imputato di indicare il dove e il come della misura. Pleonasmo o no - il Giudice si sofferma spesso su dettagli che il legislatore non ha disciplinato espressamente - qui la Cassazione individua una declinazione operativa dell’enunciato normativo e fornisce ausilio al giudice nell’applicare la legge.
In questi termini non accade nulla di straordinario: è il legislatore a scegliere di (e come) contemperare il momento di discrezionalità del giudice con un momento di partecipazione dell’imputato; è il legislatore a stabilire il “chi fa cosa” (anche se qui, come altrove, il legislatore si priva di determinate prerogative).
La complementarità di diversi soggetti nella scelta sanzionatoria è peraltro il pendant di opzioni legislative ben collaudate: il contesto dell’art. 186 C.d.S. non è affatto estraneo ad un’integrazione tra legislatore e giudice; le cose non cambiano in questo caso, dove a “tirare la coperta” c’è anche l’imputato. Si vada a ritroso sugli elementi costitutivi del reato di guida sotto l’uso di sostanze alcooliche e si pensi, per un attimo, a come gli stessi si vanno cristallizzando nella prassi giurisprudenziale (con maggiore o minore fedeltà al dettato normativo). La contestazione dei c. 1 e 2 lett. B) è una contestazione che, come le altre, pone in relazione lo stato di ebbrezza (conseguente all’uso di bevande alcoliche) al tasso alcolemico accertato nel soggetto. Definire in modo ultimativo il tipo di relazione tra questi due elementi della fattispecie è problema di legittimità; si possono ipotizzare, e di fatto si ipotizzano, sia un unico accertamento (stato di ebbrezza stimato dal giudice oppure stato di ebbrezza riveniente dall’accertamento dei tassi alcolemici previsti per legge) sia un duplice accertamento (stato di ebbrezza stimato dal giudice e stato di ebbrezza riveniente dall’accertamento dei tassi alcolemici previsti per legge). Le ricadute di questa querelle sono di massimo rilievo, inerendo alla minore o maggiore selettività (ed ampiezza applicativa) del paradigma normativo.
Così, nel caso di specie, si assiste ad un arretramento della norma astratta rispetto alla sintonia concreta tra giudice ed imputato. Non accade nulla di straordinario: già a livello astratto si possono manifestare opzioni di segno opposto anche sul versante sanzionatorio. Da un lato un imputato più partecipe delle scelte del giudice, a sua volta compresso nelle sue prerogative in ragione dell’integrazione con opzioni del reo, dall’altro un imputato semplicemente disposto a condividere una scelta di chi lo giudica.
L’opzione del Collegio è senz’altro pro reo, richiedendosi una minor collaborazione dell’imputato, con ricadute in termini di maggior benevolenza (atteso che minor selezione sulle scelte di benevolenza significa, indefettibilmente, maggior benevolenza). Di qui una possibile sintesi: emerge l’ossimoro di un imputato partecipe, ma in misura inversamente proporzionale ai possibili benefici che lo attendono; vera la negativa, paradigmi selettivi nell’amministrare indulgenza significano selezione (e restrizione) dello strumento indulgenziale…. Indubbiamente contra reum.