Casa familiare: terzo acquirente può agire per accertare le condizioni dell'assegnazione (Cass.
Il terzo acquirente della casa coniugale, già assegnata al coniuge affidatario del figlio minorenne o maggiorenne non economicamente autosufficiente, non è legittimato a chiedere la revisione delle condizione di divorzio ai sensi dell’art. 9 della legge n. 898 del 1970, ma può instaurare un ordinario giudizio di cognizione, chiedendo l’accertamento dell’insussistenza delle condizioni per il mantenimento del diritto personale di godimento a favore del coniuge assegnatario della casa coniugale.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 15367/2015, chiarendo che l'efficacia del provvedimento di assegnazione può essere messa in discussione solo dai coniugi (separati) o dagli ex coniugi (divorziati) attraverso il procedimento per la modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. Il terzo acquirente dell'immobile, invece, potrà solo instaurare un giudizio ordinario di cognizione, chiedendo l’accertamento dell'insussistenza delle condizioni per il mantenimento del diritto personale di godimento a favore del coniuge assegnatario, per essere venuta meno la presenza di figli minorenni, o maggiorenni non autosufficienti con il medesimo conviventi.
L’articolata vicenda processuale terminata con la sentenza che si commenta inizia con la pronuncia del Tribunale di Roma di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario. Tale decisione confermava l'assegnazione della casa coniugale, come già era stato disposto in sede di separazione, alla moglie, con provvedimento trascritto.
Successivamente, il marito, mediante rogito notarile, alienava il suddetto immobile in favore di un terzo, il quale veniva, pertanto, reso edotto della sussistenza del diritto di godimento del bene in capo alla ex moglie, in quanto affidataria della figlia allora minorenne.
Dopo qualche anno, in sede di revisione delle condizioni di divorzio, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 9, il Tribunale di Roma revocava l'assegno di mantenimento disposto dalla predetta sentenza in favore della figlia, divenuta, nelle more, maggiorenne ed economicamente autosufficiente, senza pronunciarsi sul provvedimento di assegnazione della casa coniugale.
Il terzo, visto l'esito negativo della richiesta di rilascio dell'immobile in questione, proposta in via stragiudiziale con missiva, instaurava, pertanto, dinanzi al Tribunale di Roma, un giudizio di accertamento dell'insussistenza del diritto della ex moglie e della figlia a continuare ad occupare l'ex casa coniugale, con domanda di condanna delle medesime al rilascio del bene e alla corresponsione di un'indennità per l'illegittima occupazione dello stesso.
In primo grado le domande venivano rigettate.
Il terzo proprietario pertanto proponeva appello.
La Corte territoriale accoglieva l’impugnazione, sostenendo che il venir meno del diritto al mantenimento, in capo alla figlia, comportasse automaticamente anche l'insussistenza del diritto della medesima e della madre a continuare ad abitare nell’immobile di sua proprietà.
Le due donne impugnavano la decisione ma la Corte di Cassazione confermava quasi integralmente la decisione dei Giudici del secondo grado.
Come è noto, la materia dell’assegnazione della casa familiare è regolata dall’art. 337 sexies c.c., che, a seguito dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 154/2013, ha sostituito l’art. 155 quater.
Il predetto articolo stabilisce che "il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli", rendendo palese che la finalità perseguita è quella di consentire ai figli di genitori in crisi di continuare a vivere in quello che è per loro il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si articola la vita familiare (cfr. Cass. civ. 5708/2014).
La Suprema Corte ribadisce, per l’ennesima volta, che “tale "ratio" protettiva non è configurabile, invece, in presenza di figli economicamente autosufficienti, sebbene ancora conviventi, verso i quali non sussiste, proprio in ragione della loro acquisita autonomia ed indipendenza economica, esigenza alcuna di spedale protezione (cfr., ex plurimis, Cass. 5857/2002;25010/2007; 21334/2013).”
Si ricorda inoltre che, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 6, c. 6, (nel testo sostituito dalla L. n. 74 del 1987, art. 11), il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario, avendo per definizione data certa, è opponibile, ancorché non trascritto, al terzo acquirente in data successiva per nove anni dalla data dell'assegnazione, ovvero - ma solo ove il titolo sia stato in precedenza trascritto - anche oltre i nove anni.
In buona sostanza, nel caso in cui ci siano figli minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti, il terzo, in presenza di un regolare provvedimento trascritto, come nel caso di specie, deve rispettare la destinazione impressa al bene e ciò fino a quando, con una successiva pronuncia giudiziale, il vincolo non venga meno (Cass. 5067/2003; 9181/2004; 12296/2005; 4719/2006).
Del resto, “il perdurare sine die dell'occupazione dell'immobile - perfino quando ne siano venuti meno i presupposti, per essere i figli divenuti ormai autonomi economicamente - si risolverebbe in un ingiustificato, durevole, pregiudizio al diritto del proprietario terzo di godere e disporre del bene, ai sensi dell'art. 42 Cost., e art. 832 c.c.. Una siffatta lettura delle succitate norme che regolano l'assegnazione della casa coniugale (v. ora l'art. 337 sexies c.c.), del resto, presterebbe certamente il fianco a facili censure di incostituzionalità”.
Una materia questa davvero delicata in quanto vengono a scontrarsi due posizioni meritevoli di tutela: il diritto di godimento della casa coniugale e il diritto di proprietà.
La legge però in questo caso non lascia spazio a dubbi interpretativi: le esigenze patrimoniali dell'acquirente dell'immobile sono prevalenti rispetto alle esigenze di tutela della prole, ormai, nel caso esaminato, del tutto venute meno.
Nel caso di specie non giova alla ex moglie nemmeno invocare il principio secondo cui la revoca dell'assegnazione della casa coniugale non può essere disposta se non all'esito di una valutazione di conformità di tale pronuncia all'interesse del minore (o del maggiorenne economicamente non autosufficiente). E', invero, di tutta evidenza, che la mancanza di una prole da tutelare con l'assegnazione del bene in questione, rende improponibile un giudizio di comparazione tra le esigenze della proprietà (nella specie del terzo) e quelle di tutela dei figli della coppia separata o divorziata.
Si ricorda infine che il diritto personale di godimento in questione esula dal tema dei diritti patrimoniali conseguenziali alla pronuncia di divorzio. L’assegnazione della casa coniugale non costituisce una misura assistenziale: non può sopperire alle esigenze del coniuge economicamente più debole, a fronte delle quali è previsto unicamente l’assegno di divorzio.
Venuti meno, pertanto, i presupposti per l’assegnazione, il terzo ha correttamente esperito un giudizio ordinario diretto a conseguire la dichiarazione di inefficacia del titolo che legittima l’occupazione della casa coniugale da parte delle due donne.
Non avrebbe infatti potuto chiedere la revisione/modifica delle condizioni del divorzio ai sensi dell’art. 9 della legge n. 898 del 1970, in quanto tale rimedio spetta esclusivamente ai coniugi.
Il terzo, inoltre, aveva chiesto la corresponsione di un'indennità per l'illegittima occupazione dell’immobile, a partire dal giorno in cui la ex moglie ricevette la diffida in via stragiudiziale.
La Corte d’Appello aveva condannato le due donne al pagamento, prendendo in considerazione proprio il suddetto dies a quo.
Tale punto non è stato confermato dalla Suprema Corte, la quale ha ritenuto che il pagamento dell’indennità dovesse decorrere dal deposito della sentenza d’appello, mediante la quale è stato accertato il venir meno delle condizioni che avevano legittimato l’assegnazione della casa coniugale.
Nulla era dovuto per il periodo antecedente, quando ancora l'occupazione del bene de quo da parte della medesima era giustificata dalla pronuncia di divorzio.