Ragionevole durata del processo: corresponsabilità tra Stato e parte processuale (Cass. Civ. sez. VI
La condotta processuale non collaborativa, tenuta da una o entrambe le parti, ovvero da un’autorità terza, non esclude la responsabilità dello Stato per la conseguente dilazione dei tempi processuali. Questo il principio espresso dalla VI Sezione civile della Cassazione, nella sentenza n. 2586 del 09/02/2016, dove ha ricalcato il compito dello Stato di organizzare l’apparato giudiziario in modo da soddisfare la domanda di giustizia in un tempo ragionevole.
La vicenda origina in Umbria, dove la Corte d’Appello del capoluogo veniva investita di un ricorso, formulato ai sensi della cd.Legge Pinto, per l’eccessiva durata di un giudizio amministrativo d’ottemperanza nei confronti di una pubblica amministrazione. La Corte perugina, nel rigettare il ricorso, rilevava che i tempi delle numerose decisioni emesse nel giudizio d’ottemperanza apparivano ragionevoli, se rapportate agli standard di durata indicati dalla CEDU. Evidenziava che i tempi intercorsi tra le varie pronunce emanate dal Consiglio di Stato non erano imputabili alla medesima autorità giudiziaria, bensì al contegno colpevole dell’amministrazione, che si era sottratta all’obbligo di conformarsi alla statuizione, oltre che allo specifico ordine di prestarvi ottemperanza. La responsabilità per l’intera durata del giudizio d’ottemperanza, superiore ai tre anni stabiliti per un processo di primo grado, per la Corte territoriale doveva ascriversi non all’autorità giudiziaria, bensì alla pubblica amministrazione parte del giudizio.
I soccombenti ricorrono in Cassazione che, ribaltando la pronuncia della corte territoriale, rileva che l’irragionevole durata del processo ai sensi della Legge Pinto (articolo 2 nel testo precedente alle modifiche di cui al D.L. n. 83/2012, convertito in L. n. 134/2012) va accertata tenendo presente la condotta delle parti e del giudice, distinguendo tra tempi addebitabili alle parti e quelli imputabili allo Stato. Nel dettaglio, salvo che si rilevi una vera e propria strategia dilatoria finalizzata ad impedire l’esercizio dei poteri del giudice, occorre individuare la durata ascrivibile allo Stato, ferma restando la possibilità che le istanze di differimento, formulate dalle parti, incidano nella misura dell’indennizzo da riconoscere.
La VI Sezione precisa che la possibilità di imputare allo Stato una certa frazione della durata complessiva del processo non risulta esclusa dall’eventuale difetto di adeguati strumenti normativi, processuali o amministrativi, di coazione o sostituzione, in tal caso configurando una “violazione di sistema” conseguente a scelte, inerzie, ovvero inefficienze, comunque riconducibili all’organizzazione dell’apparato pubblico, rilevanti ai fini dell’articolo 6, par. 1, CEDU. Su tale premessa ermeneutica la Cassazione ha ribadito che l’articolo 2 c. 2 della Legge Pinto, nella versione anteriore alle succitate modifiche, va inteso nel senso che la condotta non collaborativa di una o di entrambe le parti, ovvero di un’autorità terza comunque coinvolta, non esclude la responsabilità dello Stato per la conseguente dilazione dei tempi processuali.
Lo Stato deve soddisfare la domanda di giustizia in un tempo ragionevole, vincendo anche ingiustificate resistenze, che possono comunque influire sulla valutazione di complessità del processo e sul giudizio di durata ragionevole nella fattispecie concreta. Nonostante dette resistenze, lo Stato ha l’obbligo di garantire un processo ragionevolmente celere, utilizzando opportuni strumenti di governo e di coazione, la cui eventuale carente previsione rappresenta “violazione di sistema”, ai fini dell’articolo 6, paragrafo 1 CEDU.