Delle pause fra i vari episodi di maltrattamenti non escludono l'abitualità (Cass. Pen. sez. VI
Integra il delitto di maltrattamenti il compimento di più atti, delittuosi o meno, di natura vessatoria, che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, senza che sia necessario che essi vengano posti in essere per un tempo prolungato, essendo, invece, sufficiente la loro ripetizione, anche se in un limitato contesto temporale, e non rilevando, data la natura abituale del reato, che durante lo stesso siano riscontrabili nella condotta dell’agente periodi di normalità e di accordo con il soggetto passivo.
Con l'adagio in esame la Corte di Cassazione ha precisato che l'abitualità connotante il reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p. non viene neutralizzata da eventuali momenti di pausa che siano riscontrabili tra i vari episodi lesivi della dignità psico fisica della vittima.
Sempreché, è bene aggiungerlo, gli stessi non siano di durata tale da interrompere la progressione criminosa.
Il reato di maltrattamenti, per ricordarne sommariamente le caratteristiche tipologiche, è una fattispecie a forma libera, perpetrabile esclusivamente all'interno di precisi rapporti tra agente e vittima (rapporto di famiglia o di convivenza, rapporto di autorità, rapporto di affidamento per ragioni di educazione, cura, vigilanza, custodia o per l'esercizio di arti o professioni) e genericamente riferibile a qualunque comportamento caratterizzato dalla perpetrazione nel tempo di atti di sopraffazione, delittuosi o meno, tali da offendere la personalità del soggetto passivo e causare la degenerazione del rapporto nel cui alveo sono posti in essere.
La condotta tipica, che può manifestarsi sia in forma commissiva che mediante omissioni laddove il soggetto agente ometta di tenere un determinato e diverso comportamento, deve essere caratterizzata ad substantiam dal requisito dell'abitualità, cioè della continuità e ripetitività di atti vessatori, giacché il legislatore ha inteso sanzionare la lesione dell'integrità psico-fisica, del patrimonio morale, della libertà e del decoro del soggetto passivo.
Lo stesso elemento psicologico del reato, cioè il dolo richiesto ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia, non postula la rappresentazione e la programmazione di una pluralità di atti tali da cagionare sofferenze fisiche e morali alla vittima, essendo sufficiente la coscienza e la volontà di persistere in un'attività vessatoria idonea a ledere la personalità della persona offesa.
Poste queste brevi premesse dogmatiche, veniamo al caso sottoposto al vaglio della Corte.
L'imputato, condannato nel merito per il reato di maltrattamenti e lesioni in danno della convivente, ricorreva per cassazione stigmatizzando come erronea la sussunzione delle condotte contestate nella fattispecie di cui all'art. 572 c.p., per difetto del requisito dell’abitualità delle medesime. In particolare, assumeva che l'istruttoria aveva accertato la verificazione di soli tre episodi aggressivi lungo un arco di due anni, mentre era emerso che la convivente avesse una vita di relazione autonoma, con piena disponibilità delle risorse economiche messele a disposizione dal compagno. Lamentava, inoltre, la mancata assunzione di una prova decisiva, sopravvenuta al giudizio di primo grado, con riferimento all'audizione dei figli minori della coppia, utile per accertare lo stato d’animo della persona offesa ed i motivi per cui si era risolta a sporgere la querela e il travisamento di talune dichiarazioni testimoniali.
La Corte di cassazione ha ritenuto le censure infondate.
In particolare, ha escluso il carattere della novità della prova evidenziando come la difesa del ricorrente: non avesse offerto indicazione sul contenuto delle informazioni che avrebbero potuto rendere i figli e ciò non consentisse alla Corte di merito di stabilire se quella prova fosse sopravvenuta (dovendo ai fini della novità tenersi in considerazione il tema su cui essa deve vertere, onde consentire al giudice di apprezzarne l’effettiva novità o meno rispetto agli argomenti di prova già trattati); né avesse dimostrato l'esistenza, nella motivazione della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità, che sarebbero state presumibilmente evitate se si fosse provveduto all'assunzione o alla riassunzione di determinate prove in appello, impedendo in tal modo alla Corte di merito di stabilire se quella prova fosse o meno decisiva, tale da sovvertire l’esito del giudizio.
Quanto al travisamento delle testimonianze acquisite, la Corte ha escluso che lo stesso ricorresse, non ravvisando l'esistenza di un fraintendimento macroscopico del contenuto delle indicate testimonianze da parte dei giudici di entrambi i gradi di giudizio e richiamando a tal fine l'orientamento secondo cui la deduzione del vizio in questione deve “evidenziare la palese e non controvertibile difformità tra il senso intrinseco della dichiarazione e quello tratto dal giudice”, e nel caso di cosiddetta “doppia conforme”, deve essere ascrivibile ai giudici di entrambi i gradi di giudizio.
Infine, per quel che è l'aspetto di maggiore interesse, ha precisato, come sopra anticipato, che il reato di maltrattamenti, integrato non soltanto da condotte delittuose (percosse, lesioni, ingiurie, minacce), ma anche dagli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali, sussiste anche quando tali sistematiche condotte violente e sopraffattrici non realizzino l'unico registro comunicativo con la vittima, ma siano intervallate da condotte prive di tali connotazioni o dallo svolgimento di attività familiari, anche gratificanti per la parte lesa. Ciò perché le ripetute manifestazioni di mancanza di rispetto e di aggressività conservano il loro connotato di disvalore in ragione del loro stabile prolungarsi nel tempo. Altresì, è sufficiente ai fini della configurabilità di tale delitto, la consapevolezza del soggetto agente di persistere in un'attività delittuosa, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere l'interesse tutelato dalla norma incriminatrice.