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Lite temeraria per chi cita giurisprudenza a sproposito e redige atti seriali (Trib. Padova sez. II

Ricade nell'ambito di applicazione dell'art. 96 III c. c.p.c. l'aver basato l'intera impostazione processuale dell'azione civile sulla base di una lettura errata di un precedente giurisprudenziale e per il resto affidando la difesa a deduzioni vaghe, introdotte con atto fatto sostanzialmente in serie rispetto a tanti procedimenti similari, all'unico scopo di ottenere una CTU che sopperisca al vuoto argomentativo dell'atto di citazione stesso, in una materia, come quella bancaria, estremamente tecnica e complessa e che, colpa anche la gravissima congiuntura economica che colpito famiglie e imprese, meriterebbe di essere trattata con diverso approccio processuale.

Il caso

Gli attori citavano in giudizio dinanzi al Tribunale Civile di Padova la convenuta, deducendo di aver stipulato un mutuo a tasso variabile per l’importo di euro 170.000,00 al tasso convenzionale del 3,50% ed al tasso di mora pari al 5,50%: evidenziavano coloro che avevano agito in giudizio che al momento della stipula il tasso soglia usura fosse pari al 6,24%.

Deducevano gli attori, inoltre, che già dalle esposizioni di questi pochi valori si potesse evincere come il tasso concordato fosse usurario fin dalla sua pattuizione e per corroborare questa deduzione affermavano che la Suprema Corte con la sentenza n. 350/2013 avesse affermato che, ai fini della verifica della usurarietà dei ratei di interesse, il tasso convenzionale ed il tasso di mora andassero sommati cosicché, se fosse stata vera questa deduzione, effettivamente il tasso da confrontare sarebbe stato pari al 9% (3,50% + 5,50%) ovvero di molto superiore al tasso del 6,24% che rappresentava ratione temporis il tasso soglia. Deducevano ancora gli attori che in seguito quel mutuo venne rinegoziato e trasformato da tasso variabile a tasso fisso con un tasso convenzionale pari al 5% ed uno di mora di 5 punti superiori al tasso nominale (tasso nominale che nel contratto viene quantificato nel 4,25%) e, quindi, al 10% (in questo caso, però, si trattava evidentemente di un mero errore di calcolo contenuto nell’atto di citazione, essendo il risultato dell’operazione di addizione allegata da parte attrice pari a 9,25% e non a 10%) laddove il tasso soglia pro tempore vigente era pari al 9,45%. Nel corso delle memorie (ed in parte anche nell’atto di citazione) gli attori facevano un generico riferimento anche alle ulteriori voci di spesa che, insieme ai tassi base, avrebbero concorso a portare i tassi pattuiti oltre la soglia.

Si costituiva la convenuta chiedendo il rigetto delle domande attoree e particolarmente censurando la appena esposta seconda deduzione attorea in virtù della quale anche le spese collegate all’erogazione del credito avrebbero dovuto concorrere a far superare il tasso soglia.

La soluzione

Con sentenza del 09/04/2015, il Tribunale di Padova ha ritenuto che, sia il mutuo originario, che essendo a tasso variabile o ha tassi usurai fin dal suo sorgere oppure non può mai essere usurario visto che i suoi tassi salgono o scendono in base all’andamento degli indici di riferimento collocandosi sempre per definizione entro il tasso soglia, sia quello fisso rinegoziato, sono stati previsti con tassi, convenzionali e di mora, pacificamente e documentalmente entro la soglia. L’unico modo per cui, sulla base delle deduzioni attoree dimesse nell’atto di citazione, quei due mutui potrebbero essere considerati ab origine usurari è se si ritenesse che la sentenza 350/2013 della cassazione abbia detto che al fine della verifica si debbano sommare il tasso convenzionale con quello moratorio. Secondo il giudice, addirittura “fortunatamente” (è l’avverbio testualmente utilizzato) la Cassazione non ha mai detto “una simile mostruosità” ma solo che il tasso di mora deve essere tenuto in conto ai fini della valutazione della usurarietà e ciò vuol dire che il Giudice deve verificare se, il tasso convenzionale e quello di mora singolarmente considerati, superino o meno il tasso soglia non potendosi accontentare di verificare il solo tasso convenzionale come era opinione isolata ma presente prima di quella decisione.

Alla luce delle superiori considerazioni le domande attore sono manifestamente infondate e vanno integralmente rigettate. Ciò detto, il giudice ha ritenuto che sul comportamento processuale degli attori valgano le seguenti considerazioni: essi hanno agito in giudizio pur consapevoli di essere privi di qualsiasi prova delle loro asserzioni, ed un tanto si evince proprio dal fatto che le uniche doglianze che la parte ritiene di introdurre nel procedimento con il suo atto, sono relative a doglianze che non hanno trovato alcun riscontro probatorio poiché l’unica o comunque la principale doglianza era affidata al fatto che il tasso di interesse pattuito fin dal sorgere del rapporto fosse usurario ed un tanto la parte ha dedotto riferendo che la sentenza Cass. n. 350/2013 abbia detto che, ai fini della verifica se il tasso pattuito sia o meno usurario, gli interessi corrispettivi vadano sommati agli interessi moratori. Però la sentenza ha detto, al contrario, che gli interessi di mora vanno “tenuti in conto” ovvero che per valutare se le pattuizioni siano o meno legittime si debba verificare che sia gli interessi convenzionali che quelli di mora debbano essere al di sotto della soglia usura.

L’intera impostazione che la parte ha dato alla causa è sintomo, secondo il giudice, di grave negligenza e tale condotta processuale merita di essere sanzionata ex art. 96 c.p.c. anche in considerazione del fatto che, tale modo di affrontare la materia bancaria, denota la volontà di creare un contenzioso seriale in questa materia che invece è estremamente tecnica e complessa e che, colpa anche la gravissima congiuntura economica che ha colpito famiglie e imprese, meriterebbe di essere trattata con diverso approccio processuale.

In punto di applicabilità della sanzione processuale per responsabilità aggravata va osservato che, tale comportamento, può essere sanzionato non solo su richiesta di parte, ma anche d’ufficio ex art. 96 c. 3 c.p.c., così come modificato dalla L. 69/09, in considerazione del fatto che con tale riforma il legislatore ha introdotto una forma di “punitive damages” in considerazione del danno arrecato al sistema giudiziario che, inteso nella sua complessità, è già gravato da milioni di procedimenti pendenti per cui, l’aggravamento del carico complessivo con procedimenti introdotti per finalità strumentali e dilatorie, è un comportamento abusivo che merita di essere adeguatamente sanzionato con il pagamento di una somma equitativamente individuata. Tale risarcimento tende a ristorare, sia il danno arrecato alla parte ingiustamente coinvolta nel presente procedimento, sia il danno arrecato al sistema giudiziario nel suo complesso per aggravio di cause che, tutte insieme, concorrono a formare un numero di procedimenti che ormai da tempo superano quanto si possa esigere in termini di produttività da un singolo Giudice così che normalmente lo stesso sia impossibilitato a definire la totalità dei procedimenti gravanti sul suo ruolo entro i termini che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo ritiene equi, ovvero tre anni dalla data di iscrizione a ruolo per un procedimento di primo grado così come recepito nel nostro ordinamento con la legge 89/2001 c.d. Legge Pinto in applicazione dell’art. 6 C.E.D.U., così da esporre, in ultima istanza, lo Stato Italiano a continue sanzioni pecuniarie per la durata irragionevole dei suoi procedimenti giudiziari. Tutto ciò considerato sanzione equa, anche alla luce del principio di diritto espresso dalla Cass. Sez. 6 –2, Ordinanza n. 21570 del 30/11/2012, appare essere quella pari al quintuplo delle spese di lite liquidate ai sensi del DM 55/2014.

I precedenti

L’art. 96 III comma c.p.c., è stato introdotto dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, al fine di rafforzare le sanzioni per l’uso distorto degli strumenti processuali. La norma riconosce al giudice facoltà di condannare la parte soccombente – anche d’ufficio – al pagamento di una somma equitativamente determinata a favore della controparte, in aggiunta all’eventuale condanna alla rifusione delle spese processuali. In varie occasioni la giurisprudenza di merito ha applicato l’istituto come una vera e propria sanzione privata, con evidente scostamento rispetto alla struttura tipica dell’illecito civile (T. Pordenone 18 marzo 2011; T. Varese 30 ottobre 2009). Si tratta, in sostanza, di una vera e propria condanna punitiva (Trib. Pordenone, 18 gennaio 2013), irrogata dall’autorità giudiziaria ma a diretto vantaggio di un soggetto privato, per uso distorto degli strumenti processuali. Non constano precedenti analoghi a quello in esame, ma che la lettura palesemente distorta di precedenti giurisprudenziali possa rientrare nel concetto di colpa grave nell’agire o resistere in giudizio, non stupisce.

Infatti, come ha affermato anche Cass., 18/02/2011 n. 3993, la temerarietà della lite può essere ravvisata nella coscienza dell'infondatezza della domanda (o nel difetto della normale diligenza per l'acquisizione di detta coscienza). Relativamente all'entità del danno sofferto per lite temeraria ex art. 96 c.p.c., se l'esistenza e la prova devono essere offerte dall'istante sia per quanto concerne l'"an" sia per il "quantum debeatur", il pregiudizio derivante da condotte processuali dilatorie o defatigatorie della controparte può desumersi da nozioni di comune esperienza anche alla stregua del principio, ora costituzionalizzato, della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost., comma 2) e della L. n. 89 del 2001 (c.d. legge Pinto), secondo cui, nella normalità dei casi e secondo l'"id quod plerumque accidit", ingiustificate condotte processuali, oltre a danni patrimoniali, causano "ex se" anche danni di natura psicologica che, per non essere agevolmente quantificabili, vanno liquidati equitativamente sulla base degli elementi in concreto desumibili dagli atti di causa (Cass. 24645/2007). D'altra parte, in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, anche per le persone giuridiche il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo correlato a turbamenti di carattere psicologico, è - tenuto conto dell'orientamento in proposito maturato nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo - conseguenza normale, ancorchè non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, a causa dei disagi e dei turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell'ente o ai suoi membri, e ciò non diversamente da quanto avviene per il danno morale da lunghezza eccessiva del processo subito dagli individui persone fisiche (Cass. 1746/20101: 2246/2007).

La questione della “cumulabilità” degli interessi di mora e di quelli corrispettivi ai fini del calcolo del superamento del tasso soglia di usura, è stata variamente risolta dalla giurisprudenza. Per un primo orientamento, cui aderisce il provvedimento commentato la sentenza della Corte di Cassazione 350/13, afferma soltanto che si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge al momento in cui sono promessi o convenuti, a qualunque titolo, quindi anche a titolo di interessi moratori, senza peraltro statuire che tasso corrispettivo e tasso di mora vadano comunque cumulati. Nel caso all’esame della Suprema Corte il tasso di mora era stato pattuito in termini di maggiorazione del tasso corrispettivo sicché la maggiorazione cui si riferisce il Supremo Collegio attiene le modalità di pattuizione di quel tasso di mora (Trib. Roma, 2 marzo 2015); cfr., anche Trib. Reggio Emilia, 24 febbraio 2015, secondo cui il tasso soglia al di là del quale gli interessi sono considerati usurari, riguarda non solo gli interessi corrispettivi, ma anche quelli moratori; peraltro, la verifica dell’eventuale superamento del tasso deve essere autonomamente eseguita con riferimento a ciascuna delle due categorie di interessi, senza sommarli tra loro; ove il superamento del tasso soglia riguardi solo gli interessi moratori, la nullità ex art. 1815, comma 2, c.c. colpisce unicamente la clausola concernente i medesimi interessi moratori, senza intaccare l’obbligo di corresponsione degli interessi corrispettivi convenzionalmente fissati al di sotto della soglia. Secondo il Trib. Treviso, 09/12/2014, le due specie di interessi sono distinte, in quanto quelli corrispettivi remunerano la mutuante della messa a disposizione del denaro e costituiscono il corrispettivo del diritto del mutuatario a godere della somma capitale erogata in conformità al piano di ammortamento; gli interessi di mora hanno, invece, funzione sostanzialmente risarcitoria, di liquidazione in via preventiva del danno patito dal mutuante per l'inadempimento del mutuatario e, come tali, rientrano nel novero delle prestazioni accidentali, prive di carattere corrispettivo, che vengono in rilievo solo nella eventuale fase patologica del rapporto in conseguenza dell'inadempimento del debitore.

Si vedano però, contra, varie ordinanze ammissive di CTU in cui si fa riferimento alla cumulabilità delle due voci di interessi: Trib. Bologna 10 novembre 2014; Trib. Siena 29 ottobre 2014; Trib. Sassari 13 dicembre 2014; Trib. Firenze, 28 aprile 2015; Trib. Torino 14 maggio 2015. Alla luce di tali oscillazioni interpretative la condanna per lite temeraria, nella vicenda in questione, appare del tutto discutibile.

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