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Infezione nosocomiale: occorre provare il nesso fra degenza e infezione (Trib. Roma sez. XIII sent.

Una donna veniva ricoverata presso un nosocomio romano per un intervento di artroprotesi. Durante la degenza contraeva un’infezione, a causa della quale dovette sottoporsi ad ulteriori interventi, tra i quali la rimozione e la revisione della protesi. A seguito di siffatti eventi, la donna ha subito un notevole aggravamento del proprio stato di salute, tanto da poter camminare unicamente attraverso degli ausili.

Adisce, quindi, il Tribunale di Roma, per chiedere il risarcimento del danno subito. In relazione all’oggetto del giudizio si discusse non del deterioramento fisico, bensì del differenziale fra lo stato di salute della donna, attuale, e quello che, invece, avrebbe avuto, qualora non avesse contratto l’infezione. Il giudice, nel motivare l’accoglimento della domanda attorea, ha condiviso le risultanze della consulenza medica, dove si è accertato che la donna aveva contratto un’infezione nosocomiale riconducibile al ricovero ed all’intervento di artoprotesi, senza tuttavia accertare il momento, né lo specifico contesto ospedaliero, ove l’infezione era insorta. Il giudice rileva, più in particolare, che il nosocomio, soccombente in punto di responsabilità, avrebbe dovuto fornire la prova, rigorosa, di aver posto in essere tutto il possibile per evitare l’insorgenza dell’infezione stessa: solo se avesse soddisfatto tale onere, il giudice avrebbe potuto valutare l’eventuale rilevanza, a favore del convenuto, del rappresentare, l’infezione in questione, una complicanza di intervento.

A dir del giudice, l’ospedale avrebbe dovuto dimostrare che l’evento dannoso, cioè il contagio da batterio nosocomiale, era possibile e prevedibile, bensì non prevenibile, rientrando in quell’area di casi che la scienza medica ha enucleato quali eventi che possono sfuggire ai controlli di sicurezza apprestati dalle strutture sanitarie. Tale prova “negativa”, osserva ancora il giudice, va fornita attraverso la prova “positiva” di aver fatto tutto quanto la scienza del settore ha, allo stato, escogitato, per evitare, o quanto meno ridurre, il rischio di contaminazione.

Ancora, il tribunale rileva che, nella fattispecie, il danno conseguenza risarcibile, risulta unicamente il danno differenziale, e quindi il maggior danno, correlato all’aggravamento delle condizioni, già deteriorate, dell’attrice, a causa dell’infezione nosocomiale.

In merito alla quantificazione, il tribunale capitolino condivide quella giurisprudenza predicativa della unitarietà del danno non patrimoniale e della necessità che si evitino duplicazioni di poste, nonché l’orientamento che opta per la personalizzazione del danno in relazione alle circostanze della fattispecie concreta, dopo aver individuato i parametri liquidatori attraverso il sistema tabellare adottato presso lo stesso Tribunale.

Il Giudice ha ritenuto di liquidare il danno non patrimoniale, che contiene oltre al danno biologico, anche le componenti dinamico relazionali sulle quali il pregiudizio ha inciso, ed il dolore e le sofferenze provocate dall’evento. Oltre a ciò, ha reputato doveroso riconoscere l’ulteriore danno consistente nel mancato godimento, da parte della danneggiata, dell’equivalente monetario del bene perduto, per il tempo decorrente fra il fatto e la sua liquidazione. Degno di nota è il ragionamento utilizzato dal giudice per motivare la condanna del nosocomio agli interessi legali: “[…] non si può obliterare che ove il danneggiato fosse stato in possesso delle somme predette le avrebbe verosimilmente impiegate secondo i modi e le forme tipiche del piccolo risparmiatore in parte investendole nelle forme d’uso di tale categoria economica (ad esempio in azioni ed obbligazioni, in fondi, in titoli di Stato o di altro genere) ricavandone i relativi guadagni. Con tali comportamenti oltre a porre il denaro al riparo dalla svalutazione vi sarebbe stato un guadagno (che è invece mancato) che pertanto è giusto e doveroso risarcire, in via equitativa, con la attribuzione degli interessi legali”.

Per il conteggio di tali interessi richiama, infine, la sentenza della Corte di Cassazione del 17/02/1995, n. 1712, a rigor della quale occorre procedere, in primo luogo, alla devalutazione delle somme alla data del fatto, in quanto gli importi erano stati rivalutati alla data della sentenza. In seguito, sugli importi rivalutati anno per anno, si calcolano i relativi interessi legali, ai tassi stabiliti dalla legge per ciascun anno, senza operare alcuna capitalizzazione.

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