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Danno morale come sofferenza interiore e alterazione delle dinamiche relazionali (Cass. Civ. sez. II

Martedì 9 giugno 2015 è stata depositata la pronunzia n. 11851/2015 della Corte di Cassazione, Sezione III Civile.

La vicenda trae origine dal decesso di una donna per carcinoma all’utero non tempestivamente diagnosticato - con la particolarità che le indagini di laboratorio eseguite dalla danneggiata non avevano riscontrato cellule tumorali, ma il caso clinico, secondo le CTU espletate, andava, in base alla sintomatologia della paziente, approfondito ulteriormente.

I familiari della donna, dinnanzi al Tribunale di Venezia, ottengono il riconoscimento della responsabilità in capo alla Clinica e al Medico oltre al ristoro del danno non patrimoniale nell’ammontare di 1 milione 816 euro.

In secondo grado la Corte d’Appello di Venezia, riconfermando l’an, riduce il risarcimento a € 580.816,00.

Il Medico ritenuto responsabile dell’omessa tempestiva diagnosi, ricorre in Cassazione, ove resistono con ricorsi incidentali i familiari della vittima e la Clinica.

La Suprema Corte, non del tutto inaspettatamente, pone un muro contro lo svilimento, attraverso il rinvio ad una nozione unitaria di danno non patrimoniale, secondo i dettami rigidamente interpretati delle Sezioni Unite del 2008, delle voci che andrebbero ricondotte al danno alla persona.

La pregevole pronunzia oggetto di esame, rivisita gli arresti attraverso i quali si è formato l’indirizzo giurisprudenziale che ha distinto le differenti componenti nelle quali si articola il danno alla persona.

In particolare, la Suprema Corte si sofferma sul proprio precedente, la pronunzia n. 22585/2013 (riportandone abbondanti stralci) e sulle argomentazioni svolte dalle note “sentenze gemelle” del 2003.

Vengono anche richiamate la sentenza della Corte Costituzionale n. 233/2003 e quella delle Sezioni Unite n. 6572/2006.

Vengono inoltre richiamate più volte le pronunce a Sezioni Unite del 2008, sottolineando che nella stesse non si è soppresso il danno morale. Ed infatti, si legge che 7 “L’indirizzo di cui si discorre si è espressamente manifestato attraverso la emanazione di due successivi D.P.R. n. 3 del 2009 e il n. 191 del 2009, in seno ai quali una specifica disposizione normativa (l’art. 5) ha inequivocabilmente resa manifesta la volontà del legislatore di distinguere, morfologicamente prima ancora che funzionalmente, all’indomani delle pronunce delle sezioni unite di questa corte (che, in realtà, ad una più attenta lettura, non hanno mai predicato un principio di diritto volto alla soppressione per assorbimento, ipso facto, del danno morale nel danno biologico, avendo viceversa indicato al giudice del merito soltanto la necessità di evitare, attraverso una rigorosa analisi dell’evidenza probatoria, duplicazioni risarcitorie) tra la voce di danno c.d. biologico da un canto, e la voce di danno morale dall’altro”.

La Suprema Corte, richiamando il precedente del 2013, afferma: “troppo spesso il mondo del diritto, intriso di inevitabili limiti sovrastrutturali che ne caratterizzano la stessa essenza, ha trascurato l’analisi fenomenologica del danno alla persona, che altro non è che indagine sulla fenomenologia della sofferenza. Il semplice confronto con ben più attente e competenti discipline (psicologiche, psichiatriche, psicoanalitche) consente (consentirebbe) anche al giurista di ripensare il principio secondo il quale la persona umana, pur considerata nella sua ‘interezza’, è al tempo stesso dialogo interiore con se stesso ed ancora relazione con tutto ciò che è altro da sé. In questa semplice realtà naturalistica si cela la risposta (e la conseguente, corretta costruzione di categorie) all’interrogativo circa la reale natura e la vera essenza del danno alla persona: la sofferenza interiore, le dinamiche relazionali di una vita che cambia”.

La Suprema Corte ribadisce che è necessario distinguere la componente “morale” e quella “esistenziale”, osserva, infatti, che “ogni vulnus arrecato ad un interesse tutelato dalla Carta costituzionale si caratterizza, pertanto, per la sua doppia dimensione del danno relazione/proiezione esterna dell’essere, e del danno morale/interiorizzazione intimistica della sofferenza”. Spetta la giudice valutare entrambi questi differenti aspetti del danno, procedendo “ad una riparazione che, caso per caso, nella unicità e irripetibilità di ciascuna delle vicende umane che si presentano dinanzi a lui, risulti da un canto equa, dall’altro consonante con quanto realmente patito dal soggetto, pur nella inevitabile consapevolezza della miserevole incongruità dello strumento risarcitorio a fronte del dolore dell’uomo, che dovrà rassegnarsi a veder trasformato quel dolore in denaro”.

Le conclusioni cui è giunta la Suprema Corte, ovvero che le due componenti del danno morale siano da individuarsi nella sofferenza interiore e nell’alterazione delle dinamiche relazionali o della vita quotidiana, vengono corroborate da quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella pronunzia n. 235/2014. Secondo la Corte con tale pronunzia il Giudice delle Leggi “sconfessa, al massimo livello interpretativo, la tesi predicativa della unicità del danno biologico, quale sorte di primo motore immobile del sistema risarcitorio”.

Come noto la citata pronunzia della Corte Costituzionale ha sancito che la tabella di cui all’art. 139 cod. ass. debba ritenersi comprensiva anche della componente morale del danno.

La sentenza in commento sottolinea come tale conclusione venga fondata sul riconoscimento che la norma non impedisce si tenga conto - nel 20% della personalizzazione, legata alle condizioni soggettive del danneggiato - del danno morale; da ciò si trae la conferma circa la distinzione concettuale tra sofferenza interiore e incidenza sugli aspetti relazionali della vita del soggetto (componenti differenti, ed entrambe legate alle condizioni soggettive della vittima).

L’autonomia del danno morale risulterebbe ancora più chiara – sempre secondo la sentenza in commento - all’interno dell’art. 138 cod. ass., poiché ancora la personalizzazione del danno alle ripercussioni negative di specifici aspetti dinamico-relazionali personali.

Oggetto della previsione in aumento sarebbe quindi solo la dimensione relazionale del pregiudizio, mentre la componente di natura interiore, da quella norma non codificata e non considerata, sarebbe sottratta alle limitazioni del calcolo tabellare, lasciando libero il giudice di quantificarla con ulteriore equo apprezzamento.

In conclusione, si conferma che “al di fuori del circoscritto ed eccezionale ambito delle micropermanenti, l’aumento personalizzato del danno biologico è circoscritto agli aspetti dinamico relazionali della vita del soggetto in relazione alle allegazioni e alle prove specificamente addotte, del tutto a prescindere dalla considerazione (e dalla risarcibilità) del danno morale”.

Un riconoscimento del danno morale al di fuori del calcolo tabellare non comporterebbe alcuna duplicazione risarcitoria, essendo “l’eventuale aumento percentuale sino al 30% funzione della dimostrata peculiarità del caso concreto in relazione al vulnus arrecato alla vita di relazione del soggetto”, mentre altra e diversa indagine, operata al di fuori di qualsiasi automatismo risarcitorio, andrà compiuta in relazione alla patita sofferenza interiore.

Ed ancora si legge, “se è lecito ipotizzare, come talvolta si è scritto, che la categoria del danno esistenziale risulti indefinita e atipica, ciò appare la probabile conseguenza dell’essere la stessa dimensione della sofferenza umana, a sua volta, indefinita e atipica”.

Condivisibili le conclusioni cui è pervenuta la Corte con questa importante pronunzia, che reitera, qualora fosse ancora necessario, la legittimità dell’individuazione della doppia dimensione fenomenologica del danno, quella di tipo relazionale, e, sebbene non codificata, quella di natura interiore, lasciando libero il Giudice di quantificarla secondo equo apprezzamento.

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