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Danno tanatologico: la Cassazione lo resuscita e ne precisa i presupposti (Cass. Civ. sez. III sent.

La Suprema Corte, III sez. civile, con questa interessante sentenza precisa quali siano i presupposti ai fini della configurabilità del danno da perdita di chance e del danno tanatologico ed in merito alla risarcibilità di quest’ultimo rivede proprie precedenti posizioni espresse anche di recente a Sezioni Unite (v. Cass., Sez. Un., 22/07/2015, n. 15350).

Nel caso di specie contraddistinto da una richiesta di risarcimento dei danni (sofferti in conseguenza di tardiva diagnosi) nei confronti di un ginecologo da parte degli eredi di una donna morta a seguito di carcinoma all’utero, la Suprema Corte non condivide la decisione della Corte di Appello che aveva respinto il ricorso degli eredi.

Come premessa della propria sentenza la Corte di Cassazione individua alcuni principi fondamentali in tema di danno alla persona conseguente a responsabilità medica.

In particolare, secondo l’organo giudicante, l'omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, in relazione al quale sia manifesti la possibilità di effettuare solo un intervento c.d. palliativo, determinando un ritardo della relativa esecuzione cagiona al paziente un danno già in ragione della circostanza che nelle more egli non ha potuto fruirne, dovendo conseguentemente sopportare tutte le conseguenze di quel processo morboso, e in particolare il dolore (in ordine al quale cfr. Cass., 13/4/2007, n. 8826), che la tempestiva esecuzione dell'intervento palliativo avrebbe potuto alleviargli, sia pure senza la risoluzione del processo morboso (cfr. Cass., 18/9/2008, n. 23846, e, conformemente,Cass., 23/5/2014, n. 11522).

Inoltre un danno risarcibile alla persona in conseguenza dell'omissione della diagnosi di un processo morboso terminale è stato ravvisato dalla Suprema Corte anche in conseguenza della mera perdita per il paziente della chance di vivere per un (anche breve) periodo di tempo in più rispetto a quello poi effettivamente vissuto, ovvero anche solo della chance di conservare, durante quel decorso, una "migliore qualità della vita" (v. Cass., 18/9/2008, n. 23846, e, conformemente, Cass., 8/7/2009, n. 16014, Cass., 27/3/2014, n. 7195).

Infine, la Cassazione ha anche precisato che in tale ipotesi il danno per il paziente consegue pure alla mera perdita della possibilità di scegliere, alla stregua delle conoscenze mediche del tempo, "cosa fare" per fruire della salute residua fino all'esito infausto, anche rinunziando all'intervento o alle cure per limitarsi a consapevolmente esplicare le proprie attitudini psico-fisiche in vista del e fino all'exitus (cfr. Cass., 18/9/2008, n. 23846).

I principi appena menzionati, invece, nel caso di specie, non sono stati rispettati dalla Corte di merito che dopo avere correttamente affermato che il comportamento del medico non è stato improntato alla dovuta diligenza, ha escluso la responsabilità del medesimo argomentando dal rilievo che “i consulenti hanno confermato che secondo l'id quod plerumque accidit, poco o nulla sarebbe cambiato circa il decorso clinico, con specifico riferimento alla forma tumorale, particolarmente maligna e aggressiva”, traendone la conferma "dell'insussistenza del nesso causale tra l'aggravamento della malattia e il comportamento omissivo del sanitario”.

La stessa Corte di Appello ha anche escluso il risarcimento del c.d. danno da perdita di chance sofferto dalla donna, “per il troncante rilievo che il controverso orientamento giurisprudenziale che ne ammette la configurabilità in materia di responsabilità medica, ritiene comunque che il danno da perdita di chance sia un'autonoma voce di danno emergente, con la conseguenza che la relativa domanda è diversa rispetto a quella avente ad oggetto il mancato raggiungimento del risultato sperato”. Ed inoltre ha del pari negato il ristoro del danno “consistente nella sofferenza patita dalla donna prima di morire durante l'agonia (danno c.d. tanatologico)”, in quanto difetta, come detto in precedenza, il nesso di causalità.

La Suprema Corte non condivide le ragioni della Corte di merito affermando, in ossequio ai principi sopra enunciati, che il rilievo secondo cui il morbo ha nel caso avuto “una progressione che avvenne con modalità particolarmente rapida ed inconsuetamente tumultuosa”, per cui “poco o nulla sarebbe comunque cambiato circa il decorso clinico”, e la conclusione di “insussistenza del nesso causale tra l'aggravamento della malattia e il comportamento omissivo del sanitario” è stato formulato senza considerare che anche in presenza di una situazione deponente per un prossimo ed ineluttabile exitus l'intervento medico può essere comunque volto a consentire al paziente di poter eventualmente fruire di un intervento anche solo meramente palliativo idoneo, se non a risolvere il processo morboso o ad evitarne l'aggravamento, quantomeno ad alleviarne le sofferenze (cfr. Cass., 18/9/2008, n. 23846, e, conformemente, Cass., 23/5/2014, n. 11522). A tale stregua, l'omissione della diagnosi di un processo morboso terminale assume allora rilievo causale non solo in relazione alla chance di vivere per un (anche breve) periodo di tempo in più rispetto a quello poi effettivamente vissuto ma anche per la perdita da parte del paziente della chance di conservare, durante quel decorso, una "migliore qualità della vita" (cfr. Cass., 18/9/2008, n. 23846, e, conformemente, Cass., 8/7/2009, n. 16014, Cass., 27/3/2014, n. 7195).

La Cass. contraddicendo la Corte territoriale precisa inoltre che “il concetto di patrimonialità va correlato al bene in relazione al quale la chance si assume perduta e, quindi, in riferimento al danno alla persona ad una chance di conservazione dell'integrità psico-fisica o di una migliore integrità psico-fisica o delle condizioni e della durata dell'esistenza in vita” (così Cass., 18/9/2008, n. 23846).

L’errore commesso dalla Corte di Appello, secondo la Suprema Corte, ha portato anche alla negazione del ristoro del c.d. danno tanatologico consistente nella sofferenza patita dalla donna prima di morire durante l'agonia. Tale danno è stato dalla Suprema Corte, anche a Sezioni Unite, indicato in termini di danno morale terminale o da lucida agonia o catastrofale o catastrofico (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26772; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26773), quale danno dalla vittima subito per la sofferenza provata nell’avvertire consapevolmente l'ineluttabile approssimarsi della propria fine, per la cui configurabilità assume rilievo il criterio dell'intensità della sofferenza provata. Giova precisare, però, che in merito alla configurabilità di tale danno la giurisprudenza della Corte di Cassazione non è pacifica e difatti proprio di recente la stessa Suprema Corte a Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 22/07/2015, n. 15350), superando la ricostruzione di precedenti proprie posizioni sopra richiamate, ha affermato che, nel caso di morte immediata o che segua entro brevissimo lasso di tempo alle lesioni, non può essere invocato un diritto al risarcimento del danno iure hereditatis.

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