Compenso dell'avvocato: impugnazione dell'opposizione a decreto ingiuntivo tra apparenza e s
La sentenza della Corte di appello di Palermo 17/04/2015, n. 577 fornisce l’occasione per fare il punto sulla competenza per l’impugnazione del provvedimento che abbia deciso sull’opposizione a un decreto ingiuntivo ottenuto da un avvocato per vedersi remunerare un’attività compiuta in sede giudiziale civile e, prima ancora, sul rito applicabile a tale tipo di controversia.
IL RITO DELL’OPPOSIZIONE AL DECRETO INGIUNTIVO OTTENUTO DALL’AVVOCATO
Come noto, ove l’avvocato, per recuperare nei confronti del proprio ex cliente i compensi maturati in sede giudiziale civile, si sia avvalso dell’ordinario procedimento d’ingiunzione ex art. 633 e seguenti c.p.c., l’opposizione che si limiti a contestare il quantum della pretesa è regolata dallo speciale rito sommario di cognizione (plasmato sull’art. 702 bis – ordinario - e seguenti c.p.c.) giusto l’art. 14 del decreto legislativo 01/09/2011 n. 150.
Mentre quindi, quando l’iniziativa è del legale, il procedimento speciale previsto per la liquidazione delle sue spettanze deve ritenersi facoltativo, nella fase di opposizione originatasi da un ordinario procedimento monitorio e purchè si rimanga nell’ambito del thema decidendum della mera corretta liquidazione pare divenire obbligatorio.
Prevede, infatti, l’articolo 14 del D.lgs. 150/2011 che:
“Le controversie previste dall'articolo 28 della legge 13/06/1942, n. 794, e l'opposizione proposta a norma dell'articolo 645 c.p.c. contro il decreto ingiuntivo riguardante onorari, diritti o spese spettanti ad avvocati per prestazioni giudiziali sono regolate dal rito sommario di cognizione, ove non diversamente disposto dal presente articolo.
È competente l'ufficio giudiziario di merito adito per il processo nel quale l'avvocato ha prestato la propria opera. Il tribunale decide in composizione collegiale.
Nel giudizio di merito le parti possono stare in giudizio personalmente.
L'ordinanza che definisce il giudizio non è appellabile”.
Anche il testo della nuova norma, col mantenuto riferimento all’art. 645 c.p.c., non chiarisce il dubbio, già insorto sotto il previgente art. 30 della legge 13/06/1942, n. 794, se il giudizio di opposizione sia soggetto solo quanto alla forma alle regole del D.lgs. 150/2011 dovendosi invece svolgere con quelle che disciplinano il procedimento ordinario di cognizione nella sostanza, con la conseguenza che:
a) non sarebbe ravvisabile la competenza inderogabile del capo dell’ufficio giudiziario come nel caso di originario ricorso al procedimento speciale,
b) il giudice non dovrebbe giudicare in composizione collegiale,
c) l’opposizione andrebbe proposta con citazione a comparire conforme agli articoli 163 e 645 c.p.c.-
Nel regolare l’opposizione proposta a norma dell’art. 645 c.p.c., l’art. 14 del D.lgs. 150/2011 nemmeno prevede la necessità che le prestazioni giudiziali civili, fonte del diritto fatto valere dal professionista in sede monitoria, debbano essere relative ad un processo svoltosi davanti al medesimo giudice che ha pronunciato il decreto ingiuntivo.
Già sotto la previgente disciplina si era osservato che non vi sarebbe motivo di distinguere dato che sussisterebbe comunque l’opportunità di pervenire ad una decisione in merito all’opposizione con un procedimento semplice e rapido.
Pare tuttavia preferibile aderire alle conclusioni a suo tempo già raggiunte da autorevole dottrina secondo cui l’art. 14 andrebbe invece interpretato restrittivamente, nel senso che non ogni opposizione ad un decreto d’ingiunzione per prestazioni giudiziali civili, ma soltanto quella al decreto pronunciato dallo stesso giudice di cui all’art. 28 della legge 13/06/1942, n. 794, debba svolgersi col procedimento regolato dall’art. 14.
Come condivisibilmente osservato da tale dottrina, non vi sarebbe ragione per la quale il legislatore, quando si tratti di applicare il procedimento di cui all’art. 14 all’opposizione a decreto ingiuntivo, dovrebbe rinnegare la ratio che è alla base dell’individuazione del giudice competente in quello dinanzi al quale si è svolto il processo nel quale il professionista ha prestato la sua attività (che consisterebbe nella ritenuta sua maggior idoneità a valutarne l’opera senza necessità di ricorrere a prove costituende ai fini dell’applicazione dei parametri professionali).
Il medesimo intento dovrebbe, infatti, rinvenirsi pure per il caso d’opposizione dato che anche qui il giudice dinanzi al quale si è svolto il processo in cui il professionista ha prestato la sua attività appare maggiormente idoneo a valutarne l’opera ai fini dell’applicazione dei corretti parametri professionali, senza necessità di una fase istruttoria.
Ne dovrebbe discendere che allorquando l’avvocato proponga ricorso per ingiunzione davanti ad un giudice competente ai sensi dell’art. 637, I o III c. c.p.c. (e non del II c. del medesimo articolo) se ne potrebbe desumere la sua rinuncia implicita, per l’eventualità di un’opposizione al decreto ingiuntivo, al procedimento più rapido previsto dall’art. 14 del D.lgs. 150/2011. Così come dovrebbe desumersi avervi rinunciato ove avesse scelto di esercitare la sua azione di condanna mediante un processo ordinario o sommario (non speciale) di cognizione.
Costituisce ulteriore conseguenza di una tale tesi quella secondo cui l’avvocato, per il caso in cui abbia svolto la sua attività avanti a giudici diversi ed intenda riservarsi d’avvalere dello speciale procedimento in esame, per il caso di eventuale opposizione del cliente, avrà l’onere di proporre separati ricorsi per ingiunzione davanti al giudice di ciascun singolo processo, cui le sue prestazioni giudiziali civili si riferiscano.
Basandosi sull’esclusivo interesse sotteso alla disciplina in esame, secondo la medesima dottrina dovrebbe altresì ritenersi che l’avvocato, (solo) nel caso in cui abbia adito in sede monitoria il giudice previsto dall’art. 637, II c. c.p.c., sarebbe poi libero anche successivamente di avvalersi o meno dello speciale procedimento di opposizione previsto dal combinato disposto degli articoli 28 della l. 13/06/1942 n. 794 e 14 del D.lgs. 150/2011.
Così come potrebbe discrezionalmente scegliere di chiedere la condanna del cliente mediante un procedimento di cognizione, anche sommario (ordinario) ex art. 702 bis c.p.c., o monitorio, anche nella fase di opposizione al decreto ingiuntivo pronunciato in proprio favore egli potrebbe infatti decidere di optare per un suo svolgimento a norma degli articoli 645 e ss. c.p.c. piuttosto che in base all’articolo 14 del D.lgs. 150/2011.
All’uopo, una volta ricevuta la notifica dell’opposizione sotto forma di citazione ed iscritta la causa a ruolo da parte dell’opponente, sarebbe quindi onere dell’avvocato che si volesse avvalere del procedimento speciale in esame chiedere (anche senza prima costituirsi ex art. 166 c.p.c.), con ricorso al capo dell’Ufficio giudiziario, la fissazione di un’udienza (purché anteriore a quella avanti il g.i.) avanti il collegio per la comparizione delle parti; in difetto il procedimento d’opposizione continuerebbe a svolgersi secondo gli articoli 645 e ss. c.p.c.
È tuttavia pacifico che l’applicazione dello speciale procedimento anche per l’opposizione alla pretesa azionata in via monitoria dall’avvocato debba considerarsi vincolata negli stessi limiti sopra accennati in ordine al petitum.
L’oggetto del contendere dovrà, quindi, essere pur sempre limitato alla sola (non) corretta (secondo quanto previsto dai parametri forensi) pretesa economica dell’avvocato.
Nel caso in cui, infatti, sia contestato il rapporto professionale e/o la natura giudiziale delle prestazioni e/o sia formulata ogni altra difesa che ampli il thema decidendum (quali ad es. altri oggetti di accertamento e decisione: i presupposti stessi del diritto al compenso, i limiti del mandato, l’effettiva esecuzione della prestazione, la sussistenza di cause estintive o limitative della pretesa rinvenienti da altri rapporti o le pretese avanzate dal cliente nei confronti del professionista) si è al di fuori dell’ambito dello speciale procedimento poiché appunto volto alla mera (corretta) liquidazione del compenso del legale.
In tutti questi caso il rito dell’opposizione sarebbe quello ordinario senza alcuna possibilità di ricorrere a quello speciale.
LA COMPETENZA PER L’ IMPUGNAZIONE DELLA DECISIONE SULL’OPPOSIZIONE
La sentenza della corte di appello di Palermo in commento ha riconosciuto natura sostanziale di ordinanza ricorribile per Cassazione alla formale sentenza ex art. 281 sexies c.p.c. del giudice di prime cure pronunciata all’esito di un giudizio in cui il thema decidendum era rimasto la liquidazione del compenso spettante al legale opposto, ancorchè il giudizio fosse stato introdotto e si fosse svolto nelle forme ordinarie.
La Corte palermitana ha ritenuto che, in ogni caso, a prescindere da come sia stato introdotto e secondo quale rito si sia svolto il giudizio di opposizione, allorquando esso abbia ad oggetto solo la corretta liquidazione del compenso dell’avvocato, alla decisione del giudice debba sempre essere riconosciuta natura sostanziale di ordinanza non appellabile – ma unicamente impugnabile col ricorso per cassazione ex articolo 111 Cost. giusto quanto previsto dall’art. 14, comma 4, del D.lgs. 150/2011 – a prescindere da ogni sua diversa definizione.
La decisione è tuttavia contrastante sia con il principio di diritto enunciato dalla giurisprudenza di legittimità a sezioni unite che con quello consolidato dell’apparenza nella sua declinazione di temperamento dell’altro principio, altrettanto consolidato, della prevalenza della sostanza sulla forma secondo cui:
“è ben vero che, al fine di stabilire se un provvedimento abbia natura di ordinanza o di sentenza, occorre avere riguardo non già alla forma adottata, ma al suo contenuto (principio di prevalenza della sostanza sulla forma), cosicchè il provvedimento - impropriamente qualificato ordinanza - con cui il giudice affermi o neghi (decidendo la relativa questione senza definire il giudizio) la propria giurisdizione, ha natura di sentenza non definitiva ai sensi dell'art. 279 c.p.c., c. 2, n. 4. E tuttavia, il rilievo attribuito alla sostanza trova temperamento nel principio secondo il quale l'individuazione del mezzo d'impugnazione esperibile contro un provvedimento giurisdizionale va fatta in base alla qualificazione data dal giudice con il provvedimento impugnato all'azione proposta, alla controversia e alla decisione, a prescindere dalla sua esattezza. Tale scelta è stata, nella medesima sentenza, ritenuta l'unica "conforme ai principi fondamentali della certezza dei rimedi impugnatori e dell'economia dell'attività processuale, evitando l'irragionevolezza di imporre di fatto all'interessato di tutelarsi proponendo impugnazioni a mero titolo cautelativo, nel dubbio circa l'esattezza della qualificazione operata dal giudice a quo", così ribadendo quelle stesse ragioni che già avevano indotto le Sezioni Unite, sullo specifico tema dell'impugnabilità dei provvedimenti decisori adottati a conclusione di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo per il pagamento di prestazioni giudiziali forensi, in cui il giudice aveva espressamente qualificato lo stesso quale "ordinanza inappellabile ex art. 645 c.p.c., e L. n. 794 del 1942, art. 30, a ritenere, in conformità all'orientamento giurisprudenziale dominante in materia di opposizioni alle esecuzioni o agli atti esecutivi, decisiva la qualificazione attribuita dal giudice, precludente alla parte soccombente di scegliere il mezzo d'impugnazione secondo una propria diversa qualificazione; tanto in considerazione della "esigenza di certezza e di affidamento per la parte interessata in ordine alla scelta di determinati mezzi processuali di gravame, esigenza soddisfatta, anzitutto, escludendo che detta parte possa comunque, a sua discrezione, seguire l'una o l'altra via di impugnazione, e, quindi, privilegiando l'attribuzione di valore determinante alla qualificazione data dal giudice al provvedimento suscettibile di impugnazione, con la conseguenza di eliminare, nello stesso interesse della parte, le incertezze alle quali l'opinabilità del giudizio circa la reale natura dell'atto darebbe inevitabilmente luogo" (Cass. S.U., sent. n. 182 del 23..3.1999)”.
Si sono quindi considerate preferibili le:
“evidenziate esigenze di certezza dei rimedi impugnatori e di affidamento, rispetto a quelle, sostanziali e contenutistiche, che il più radicale ed opposto orientamento, già prevalente nelle decisioni in tema di opposizioni a decreti ingiuntivi per spettanze professionali forensi, aveva sino ad allora ritenuto di privilegiare in tale settore non sussistendo alcuna particolare ragione per sottrarre quest'ultimo all'applicabilità di un principio processuale, caratterizzato da evidenti connotati di generalità”.
Si è quindi ritenuto che il principio dell’apparenza debba essere a sua volta temperato da quello dell’affidamento con la necessità di verificare se l'adozione da parte del giudice di merito di quella determinata forma del provvedimento decisorio sia stata o meno il risultato di una consapevole scelta, ancorchè non esplicitata, desumibile dalle concrete modalità con le quali si sia svolto il procedimento.
Mancando una precisa qualificazione del provvedimento decisorio della causa deve pertanto essere data rilevanza alle modalità di gestione del processo al fine di verificare l’eventuale implicita, ma inequivoca, opzione per il rito ordinario, e ciò a prescindere dall’esattezza o meno di tale scelta.
Secondo un tale condivisibile inquadramento pare, in definitiva, ininfluente, nella materia in esame, quale sia stato il contenuto dell’accertamento e della decisione del giudice (se limitato al quantum della pretesa dell’avvocato o se esteso, a seguito della spiegata opposizione, ad un più ampio thema decidendum) dovendo solo riguardarsi al rito seguito durante il processo e, prima ancora, all’eventuale qualificazione della decisione adottata dal giudice all’esito dello stesso.
La stessa Corte non ritiene possa ostare a far prevale il principio dell'apparenza l'inconveniente d’avallare così l'eventuale errore compiuto dal giudice nel decidere la causa con un provvedimento formalmente diverso da quello dovuto dato che:
“a) nell'ipotesi in cui il giudice abbia erroneamente deciso con sentenza una controversia, che avrebbe dovuto essere invece definita con ordinanza non impugnabile, le conseguenze di tale errore, consistenti nel dare adito ad un giudizio di merito di secondo grado, non comportando alcuna elisione o compressione, ma anzi un allargamento, dell'esercizio dei diritti di azione e difesa, risultano meno lesive, e pertanto più accettabili, sul piano di un'interpretazione costituzionalmente orientata quelle che deriverebbero, a discapito dei principi di affidabilità e di certezza dei rimedi impugnatori, dalla radicale adesione al principio contenutistico;
b) nell'inversa ipotesi in cui il giudice abbia deciso con ordinanza non impugnabile, ai ritenuti sensi della L. n. 794 del 1942, art. 30, una controversia che avrebbe dovuto essere invece trattata nella forme ordinarie e decisa con sentenza, così privando le parti della possibilità di appellare, l'errore non risulta irreparabile, ben potendo essere denunciato con il rimedio straordinario dei cui all'art. 111 Cost., anche e precipuamente al fine di recuperare il secondo grado di giudizio”.
Il tipo di rimedio avverso la decisione resa sull'opposizione dipende, quindi:
a) in prima battuta unicamente dalla qualificazione che - a torto o a ragione - il giudice abbia dato al suo provvedimento suscettibile di impugnazione.
“…milita evidentemente in favore di tali principi una esigenza di certezza e di affidamento per la parte interessata in ordine alla scelta di determinati mezzi processuali di gravame, e tale esigenza è soddisfatta, anzitutto, escludendo che detta parte possa comunque, a sua discrezione seguire l'una o l'altra via di impugnazione, con la conseguenza di eliminare, nello stesso interesse della parte, le incertezze alle quali l'opinabilità del giudizio circa la reale natura dell'atto darebbe inevitabilmente luogo (così, da ultimo, Cass. SU 23/05/1996 n. 8648)”;
b) in seconda battuta, ove tale espressa qualificazione manchi, dal rito seguito (consapevolmente e o meno) durante il processo, in ossequio al diritto vivente formatosi in tema di ultrattività del rito in forza della quale, ove una controversia sia stata trattata in primo grado con il rito ordinario anziché con uno speciale, vanno seguite le forme ordinarie anche per la proposizione del relativo gravame.
E ciò, in definitiva, a prescindere dalla circostanza che nel giudizio d'opposizione si sia trattato solo della corretta applicazione dei parametri forensi all’attività compiuta in sede giudiziale dall’avvocato in sede civile o siano state affrontate questioni ulteriori la semplice sfera delle pretese del legale avanzate mediante la procedura monitoria quali ad es. gli stessi presupposti del suo diritto al compenso, l'effettiva esecuzione delle prestazioni, le domande o le eccezioni riconvenzionali dell’ingiunto-opponente, con l’inevitabile, conseguente, ampliamento del thema decidendum.