La vendita ed il possesso di cannabis light non costituiscono reato (Cass. Pen. sez. VI sent. 31/01/
Da tempo tutto il settore della canapa industriale attendeva una presa di posizione chiara da parte delle Autorità competenti sulle varie questioni sorte intorno al fenomeno della cd. cannabis light.
Tale necessità si era rafforzata ancora di più a seguito degli ultimi episodi in cui erano stati eseguiti sequestri di canapa negli esercizi commerciali ed a seguito delle risoluzioni presentate da parti politiche notoriamente avverse al mondo della cannabis.
Tale intervento è finalmente arrivato da parte della Suprema Corte di Cassazione, Sez. VI penale, che con la sentenza n. 4920/2019 ha effettuato un’interpretazione della normativa esistente rispettosa della ratio giuridica ed ispirata allo tanto auspicata logica e buon senso.
La Corte si è pronunciata sostanzialmente su tutti gli aspetti, civili, amministrativi e penali inerenti alla canapa industriale con particolare focus sulla vexata quaestio delle infiorescenze, apparentemente “dimenticate” dal legislatore nella stesura della L. n. 242/2016.
Ma andiamo ad analizzarne i vari aspetti.
Innanzitutto viene riconosciuta la chiara ratio della legge in questione, ossia il sostegno e la promozione della intera filiera agro-industriale della canapa industriale con le sue applicazioni affermando una serie di corollari che rappresentano le pietre angolari della materia:
”Il legislatore non ha promosso solo la coltivazione, ma espressamente l’intera filiera agroindustriale della canapa” andando a ricomprendere anche tutte le fasi successive alla mera produzione agricola.
Osserva infatti correttamente la Suprema Corte che se la legge promuove e sostiene una filiera agroindustriale, la commercializzazione dei prodotti da essa ottenuta rientra nella “natura dell’attività economica” stessa.
Ciò anche in virtù della semplice considerazione che se, come noto, la normativa comunitaria riconosce alla canapa industriale il carattere di “prodotto agricolo” e di “pianta industriale” e quindi non possono sussistere ostacoli circa la commercializzazione della canapa greggia, al tempo stesso, anche il commercio al dettaglio (che nelle logiche dinamiche commerciali ne rappresenta il naturale prosieguo) deve essere consentito.
La Corte di Cassazione ritiene infatti di aderire alle interpretazioni già fornite da alcuni Tribunali di merito (Trib. Ancona 27/07/2018, Trib. Rieti 26/07/2018, Trib. Macerata 11/07/2018, Trib. Asti 04/07/2018) e dalla dottrina secondo cui la liceità della commercializzazione dei prodotti della coltivazione di canapa industriale rappresenta un corollario logico-giuridico dei contenuti della L. n. 242/2016.
Ogni pianta di cannabis contiene infatti sia il chemiotipo CBD che il chemiotipo THC; ciò denota la perfetta comprensione anche sotto il profilo giuridico del fitocomplesso che caratterizza la pianta di canapa.
Tale principio – incontestabile anche sotto il profilo scientifico – potrà avere un importante riverbero su tutte le questioni attinenti alle destinazioni utilizzo lecite previste dalla legge stessa.
Sul punto la Corte di Cassazione osserva come la L. n. 242/2016 indica le finalità per cui la coltivazione della canapa è consentita “o meglio per le quali è promossa”, ma non tratta della commercializzazione della canapa oggetto della coltivazione.
“Tuttavia”, osserva la Corte, “risulta del tutto ovvio che la commercializzazione sia consentita per i prodotti della canapa oggetto del “sostegno e della promozione”, espressamente contemplati negli artt. 2 e 3 della legge” rilevando come “La legge è diretta ai produttori e alle aziende di trasformazione e non cita i passaggi successivi semplicemente perché non li deve disciplinare”.
Sul punto, infatti, si era già argomentato come lo scopo di una legge di quadro è quello di definire i confini giuridici di un settore rimettendo alle singole normative di settore la disciplina delle varie modalità tecnico-operative ed esecutive.
Osserva infatti la Corte che “il riferimento alla tipologia di uso non comporta che siano di per sé vietati per altri usi non menzionati”.
Pertanto, considerato che il Ministero delle Politiche Agricole la circolare n. 5059/2018 aveva già ricondotto le infiorescenze alla categoria del florovivaismo di cui alla lett. g) dell’art 2 della L. n. 242/2016, si deve ritenere lecita la produzione e successiva commercializzazione di tutta la pianta, infiorescenze comprese, che del florovivaismo ne rappresentano il prodotto.
La sentenza in commento ha l’ulteriore pregio di stabilire con chiarezza anche la annosa questione dei limiti di THC e di sgombrare il campo da ogni dubbio su cosa sia la canapa industriale di cui alla L. n. 242/2016.
La canapa industriale è la canapa coltivata da sementi certificate iscritte nel Catalogo generale delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell'articolo 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13/06/2002, munita di regolare cartellino di cui il coltivatore è obbligato alla conservazione unitamente alla fattura di acquisto delle sementi ai sensi dell’art. 3 della L. n. 242/2016.
Sui limiti la Corte opera una accurata ricostruzione del quadro normativo comunitario. Il limite dello 0,2% trova la sua ragione nel Reg. CE n. 73/2009 del Consiglio del 19/01/2009 in materia regime di sostegno diretto agli agricoltori. Lo scopo di tale limite è quello di evitare che venissero erogati contributi a colture illecite.
Da osservare, inoltre, come tali considerazioni fossero fondate sulla inclusione della canapa tra i prodotti agricoli cui si applicano le disposizioni del medesimo Trattato, tra cui la “canapa greggia, macerata, stigliata, pettinata o altrimenti preparata, ma non filata”.
La canapa, a livello comunitario, viene pertanto qualificata come prodotto agricolo e come “pianta industriale” sia relativamente alla coltura che alla produzione di sementi ai sensi del Reg. UE n. 220/2015.
La Cassazione ha chiarito che in ogni caso la normativa comunitaria agricola non può certamente incidere sulla normativa penale interna di uno Stato membro, ma che comunque aveva già risolto il problema della commistione tra canapa proveniente da colture lecite e canapa con possibili effetti stupefacenti stabilendo un tenore massimo di THC quale limite per gli aiuti economici agli agricoltori .
Seguendo tale impostazione la Corte ha individuato la ratio delle previsioni di cui all’art. 4 della L. n. 242/2016 ossia il doppio limite 0,2%/0,6% prevedendo all’ult. comma di tale articolo che lo 0,6% sia il limite per cui la coltivazione di canapa è conforme alla legge.
Ne deriva inevitabilmente che “In altri termini non lo 0,2%, ma lo 0,6% è la percentuale di THC sotto del quale la sostanza non è considerata dalla legge come produttiva di effetti stupefacenti giuridicamente rilevanti”.
Tale considerazione implica due ordine di considerazioni:
1) La L. n. 242/2016 si pone chiaramente come lex specialis rispetto alla normativa sugli stupefacenti di cui al DPR 309/1990 che viene definito come un “micro-ordinamento complesso” che contiene (artt. 72-86) una sezione dedicata alla “repressione delle attività illecite”.
Tale impostazione riconduce la materia della canapa industriale nei corretti binari di regola-eccezione e determina “il configurarsi di un microsettore normativo in radice autonomo per la cannabis proveniente dalle coltivazioni consentite”.
Tale concezione determina il venir meno di tutte quelle argomentazioni sottese ai provvedimenti di sequestro emessi dalle Procure della Repubblica ed in alcuni casi avallate dai Tribunali del riesame, secondo cui le guarentigie dell’agricoltore non si sarebbero estese ai commercianti e soprattutto secondo cui non vi sarebbe stato uno spazio per le infiorescenze in quanto non menzionate espressamente nella legge.
2) Ma soprattutto l’interpretazione della Corte di Cassazione incide in maniera molto marcata sulla tutela della sfera della libertà individuale e del suo rapporto con gli altri principi costituzionali.
La soglia dello 0,6%, infatti, costituisce – secondo la Corte – un “ragionevole equilibrio” sancito dal legislatore tra “le esigenze precauzionali relative alla tutela della salute e dell’ordine pubblico e le (in pratica inevitabili) conseguenze della commercializzazione dei prodotti della coltivazioni”.
Ne consegue che non può incorrere in alcuna sanzione né il commerciante che vende le infiorescenze né il consumatore che ne viene trovato in possesso non trovando spazio l’applicazione né dell’art. 73 né dell’art. 75 DPR 309/1990 per il semplice fatto che non si tratta di sostanza stupefacente.
Osserva correttamente la Corte come “La questione va inquadrata nel corretto rapporto fra i principi fondamentali dell’ordinamento che considera le norme incriminatrici come (tassative) eccezioni rispetto alla generale libertà di azione delle persone per cui eventuali ridimensionamenti delle loro portate normative non costituiscono eccezioni (norme eccezionali non estensibili analogicamente per il divieto posto dall’art. 14 preleggi) ma fisiologiche riespansioni (ben estensibili analogicamente) delle libertà individuali, che nel nostro sistema normativo non sono funzionalizzate (a differenza di quel che vale per altre concezioni del rapporto Stato-individuo) a scopi pubblici e restano espressioni individuali della persona”.
A parere dello scrivente tale passaggio costituisce un punto di riferimento nel campo dell’interpretazione giuridica e della ponderazione degli equilibri costituzionalmente rilevanti nel solco della migliore tradizione democratica e liberale, nonché baluardo difensivo di ogni tendenza autoritaria ed illiberale che non può e non deve trovare spazio nel nostro ordinamento.
Le considerazioni che precedono inducono la Corte di Cassazione a dettare alcune statuizioni anche sulla problematica dei controlli.
Il commerciante non potrà pertanto essere punibile per l’art. 73 DPR 309/1990 laddove dimostri documentalmente la provenienza lecita delle infiorescenze da lecite coltivazioni, denotando e sottolineando il valore della presunzione di legalità della documentazione (fiscale e di trasporto) che accompagna un prodotto lecito.
Né potrà essere punibile ex art. 75 il consumatore trovato in possesso di cannabis light dal momento che si tratta della “posizione di un soggetto che fruisce liberamente di un bene lecito” risultando il limite dello 0,6% di THC la soglia sotto la quale la cannabis non ha effetti psicotropi rilevanti giuridicamente ai sensi del DPR 309/1990.
“Della piena legittimazione dell’uso della cannabis proveniente dalle coltivazioni lecite” osserva la Corte “deriva che il suo consumo non costituisce illecito amministrativo ex art. 75”.
La Corte detta infine anche indicazioni – in materia di campionamento e controlli - per gli organi di Polizia, che negli ultimi anni hanno denotato notevole difficoltà ad approcciarsi al fenomeno continuando ad applicare i metodi repressivi tipici della repressione degli stupefacenti a prodotti che invece sono del tutto leciti.
“Se non è contestato che le infiorescenze sequestrate provengono da coltivazioni lecite ex lege n. 242/2016, l’autorità procedente deve dare conto delle ragioni per le quali eventualmente le modalità di prelevamento, conservazione e analisi dei campioni” ai fini della determinazione del THC “si discostano da quelle previste dall’art. 4 L. n. 242/2016” ossia dalle modalità indicate nell’All. I del Reg. 1155/2017.
Ciò determina una chiara inversione dell’onere della prova ponendo a carico degli organi di polizia la prova che la canapa de qua non proviene da coltura illecita ed impedendo la discrezionalità sull’esecuzione dei sequestri presso gli esercizi commerciali che dimostrino documentalmente la provenienza lecita della canapa.
A parere dello scrivente le chiare statuizioni della sentenza in commento non risultano neppure contrastanti, seppure ad una prima lettura potrebbe apparire, con quanto precedentemente sancito dalla sentenza n. 56737/2018 che aveva rilevato come la cannabis, in quanto contenente THC presenta natura di sostanza stupefacente a prescindere, sia per la previgente normativa che per la attuale, sempre che tale sostanza presenti un effetto drogante rilevabile.
In primo luogo occorre rilevare che il caso analizzato da tale pronuncia riguardava canapa con valori dello 0,7% (oltre la soglia dello 0,6%) e non si trattava di una varietà proveniente da coltivazioni lecite dal momento che non era neppure stato allegato alcun cartellino o documentazione attestante l’iscrizione delle sementi nel Catalogo di legge.
In secondo luogo la cannabis è e resta una sostanza stupefacente laddove presenti valori di THC superiori alla soglia stabilita dalla legge ossia se superiore allo 0,6%, dato il carattere – ampiamente chiarito – di lex specialis della L. n. 242/2016 rispetto al TU Stupefacenti e data l’incomprimibilità della libertà individuale come esposto dalla sentenza n. 4920/2019.
L’impostazione - estremamente chiara, lineare e rispettosa del dettato normativo vigente - fornita dalla sentenza n. 4920/2019 concorre (speriamo definitivamente) a chiarire gli aspetti sinora “dubbi” del settore canapa industriale, nonché a portare una ventata di libertà e democrazia che sicuramente sarà di aiuto a tutto un settore che, in meno di due anni, da un lato, ha dimostrato di essere molto attrattivo sotto il profilo economico ed occupazionale e, dall’altro, in cui gli operatori del settore si sono distinti per la propria maturità chiedendo a più riprese regole chiare ed addirittura autoregolamentandosi con Disciplinari di Produzione e norme volontarie che ben si inseriscono e potranno contribuire a sviluppare ancora di più quel “microsettore normativo in radice autonomo per la cannabis proveniente dalle coltivazioni consentite” (ricalcando le orme del biologico negli anni 80) in modo da poter creare un modello esportabile nel resto dei Paesi Europei.
La sentenza in commento potrà peraltro essere di aiuto a tutta la filiera della canapa legale italiana sancendo un limite certo tra legalità ed illegalità, così da poter chiaramente individuare ed escludere dal mercato i prodotti non conformi alle previsioni di legge: provenienza da sementi certificate e soglia dello 0,6%.
Se ciò accadrà dovremo rendere merito ai magistrati della VI sezione penale della Suprema Corte di Cassazione.