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Rinuncia al coacquisto del coniuge: dichiarazione revocabile solo per errore o violenza (Trib. Taran

"In regime di comunione legale, il coniuge non intestatario, pregiudicato dall’asserita “falsa dichiarazione” ex art. 179 lett. f c.c., può superare il valore confessorio della propria dichiarazione solo nei limiti in cui è ammessa – ai sensi dell’art. 2732 c.c. – la revoca della confessione, ossia in presenza di un errore di fatto o di violenza. In mancanza di tale prova non è possibile procedere all’accertamento della reale provenienza del bene o del denaro personale".


Il Tribunale di Taranto, sent. n. 1464 del 30/04/2015, si uniforma al recente orientamento della Cassazione che si è espressa a sezioni unite, in materia di acquisti compiuti da un solo coniuge in vigenza di comunione legale. In particolare, la sentenza esamina il valore della dichiarazione effettuata dal coniuge non acquirente di un bene immobile, il quale ai sensi dell’art. 179 lett. f) c.c., interviene nel contratto di acquisto confermando che il bene non è oggetto di comunione poiché l’acquisto è effettuato dall’altro coniuge con denaro derivante dal prezzo di trasferimento di beni suoi personali.

Il caso

La moglie acquista un immobile e il marito rende la dichiarazione di cui all’art. 179 lett. f) c.c. escludendo il bene dalla comunione legale.

In seguito alla separazione dei coniugi, l’uomo chiede l’accertamento della comunione anche su quel bene sostenendo che solo per “ragioni di convenienza fiscale” aveva concordato che il fabbricato fosse intestato alla moglie. Infatti, la moglie non possedeva nessun bene personale il cui ricavato della vendita sarebbe stato utilizzato per la compravendita del nuovo immobile. Inoltre, il pagamento del prezzo di acquisto era avvenuto con assegni tratti sul conto corrente che prima del matrimonio era intestato soltanto a lui e solo dopo il matrimonio era stato reso comune.

La moglie convenuta basa la sua difesa sulla valenza confessoria della dichiarazione rilasciata in sede notarile che produce inevitabilmente l’effetto di una presunzione iuris et de iure di esclusione dalla comunione dell’acquisto. Nel merito la donna dichiara che parte del denaro utilizzato derivava da liberalità ricevute dai propri genitori.

In fase istruttoria, il giudice ammette le prove testimoniali richieste dal marito volte a dimostrare l’effettiva provenienza del denaro utilizzato, seppure in apparente contrasto con le prove documentali, sostenendo che il divieto ex art. 2726 – 2722 c.c. si applica solo per la circostanza del pagamento in sé ma non per la sua provenienza.

La sentenza

Nelle more del processo, la Cassazione civile a sezioni unite (Cass. Civ. n. 22775/2009) ha espresso il principio in materia, secondo cui la dichiarazione del coniuge non acquirente che ha partecipato all’atto di compravendita non impedisce di esperire l’azione di accertamento negativo dell’esclusiva titolarità di un bene acquistato da parte di uno solo dei coniugi.

Per quanto attiene, però, alla prova richiesta al coniuge non intestatario, pregiudicato dall’asserita “falsa dichiarazione” ex art. 179 lett. f, c.c., lo stesso può superare il valore confessorio della propria dichiarazione solo nei limiti in cui è ammessa – ai sensi dell’art. 2732 c.c.– la revoca della confessione, ossia in presenza di un errore di fatto o di violenza.

Nel caso di specie l’attore non aveva mai allegato l’errore di fatto o una forma di violenza che lo indussero a dichiarare il falso.

La confessione stragiudiziale (art. 2730 c.c.) ossia la dichiarazione di fatti a sé sfavorevoli e favorevoli alla controparte, è prova legale per eccellenza, e pertanto il coniuge non acquirente che nell’atto pubblico dichiari che il bene è personale dell’acquirente, è ben consapevole dell’effetto pregiudizievole che potrebbe per lui avere in un futuro processo.

La legge – specifica la sentenza – non prevede l’obbligo di indicare quale sia il bene personale venduto con il ricavato del quale si procede al nuovo acquisto. Il solo fatto di indagare sull’individuazione concreta dei beni o sulla provenienza del denaro, comporterebbe la revoca della confessione che non può avvenire in assenza di un errore di fatto o di violenza.

Il contrasto giurisprudenziale sul tema della così detta “rinuncia al coacquisto” da parte del coniuge, si basava proprio sulla natura della dichiarazione del coniuge non acquirente. Secondo una certa interpretazione sarebbe una manifestazione di volontà negoziale dispositiva volta ad escludere in ogni caso il bene dalla comunione legale. Secondo un’altra prevalente interpretazione, confermata dalle sezioni unite della Cassazione, la dichiarazione avrebbe una valenza meramente dichiarativa, di tipo confessorio resa stragiudizialmente (Cass. Civ. Sez. II, n. 6120/2008, Cass. Civ. Sez. I, n. 19250/2004, Cass. Civ. Sez. I, n. 2954/2003).

Ciò comporta che la dichiarazione produce il suo effetto se corrisponde a circostanze rispondenti al vero. La verità della circostanza può essere dimostrata, comunque, solo con la prova dell’errore o della violenza, fermo restando che il terzo avente causa in buona fede, è tutelato poiché l'esito della relativa vertenza è a lui inopponibile.

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