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Prodotti difettosi: il giudice è tenuto a verificare se l'acquirente è un consumatore? (Corte di

La direttiva 1999/44/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25/05/1999, su taluni aspetti della vendita e delle garanzie dei beni di consumo, deve essere interpretata nel senso che il giudice nazionale adito, nel contesto di una controversia vertente su un contratto che può rientrare nell’ambito di applicazione della citata direttiva, è tenuto a verificare se l’acquirente possa essere qualificato come consumatore nell’accezione di tale direttiva, anche se quest’ultimo non ha espressamente rivendicato questa qualità.

Queste le conclusioni cui è pervenuta la Corte di Giustizia nella sentenza in esame, emessa nell’ambito di un procedimento relativo ad una domanda di risarcimento per il danno asseritamente cagionato dal difetto di conformità di una autoveicolo.

Nello specifico, l’acquirente, sia in primo che in secondo grado, non sosteneva di aver proceduto all’acquisto del mezzo in qualità di consumatrice, né chiedeva al giudice di pronunciarsi in ordine alla sussistenza di tale qualità.

È in questo contesto che il giudice olandese ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte una serie di questioni pregiudiziali e principalmente “se, in forza del principio di effettività, il giudice nazionale investito di una controversia relativa alla garanzia che il venditore deve all’acquirente nel contesto di un contratto di vendita vertente su un bene mobile materiale, sia tenuto ad esaminare d’ufficio se l’acquirente debba essere considerato alla stregua di un consumatore ai sensi della direttiva 1999/44, sebbene tale parte non si sia avvalsa di detta qualità”.

Sul punto, osserva la Corte, di fatto, in forza del principio di effettività e nonostante norme giuridiche interne contrarie, la Corte ha imposto al giudice nazionale di applicare d’ufficio talune disposizioni contenute nelle direttive dell’Unione in materia di tutela dei consumatori. Tale obbligo è stato giustificato dalla considerazione che il sistema di tutela posto in atto da tali direttive è fondato sull’idea che il consumatore si trovi in una situazione d’inferiorità rispetto al professionista per quanto riguarda sia il potere nelle trattative sia il grado di informazione e che esiste un rischio non trascurabile che, soprattutto per ignoranza, il consumatore non faccia valere la norma giuridica intesa a tutelarlo.

In effetti, prosegue la Corte, modalità processuali che vietino sia al giudice di primo grado che al giudice di appello, investiti di una domanda di garanzia fondata su un contratto di vendita, di qualificare, sulla base degli elementi di fatto e di diritto di cui dispongono o di cui possono disporre su semplice domanda di chiarimenti, il rapporto contrattuale in oggetto alla stregua di vendita al consumatore, laddove quest’ultimo non abbia espressamente rivendicato tale qualità, equivarrebbero ad assoggettare il consumatore all’obbligo di procedere da sé, a pena di perdere i diritti che il legislatore dell’Unione ha inteso conferirgli con la direttiva 1999/44, a qualificare giuridicamente in modo completo la sua situazione.

Pertanto, Il principio di effettività richiede che il giudice nazionale adito nel contesto di una controversia vertente su un contratto che possa entrare nell’ambito di applicazione della citata direttiva, a partire dal momento in cui dispone degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine o possa disporne su semplice domanda di chiarimenti, sia tenuto a verificare se l’acquirente possa essere qualificato come consumatore, anche se quest’ultimo non ha espressamente rivendicato questa qualità.

Il giudice del rinvio ha chiesto, inoltre, se il principio di effettività osti a una norma nazionale che obblighi il consumatore a dimostrare di avere tempestivamente informato il venditore del difetto di conformità.

La Corte ha precisato al riguardo che l’articolo 5, paragrafo 2, della direttiva 1999/44 deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una norma nazionale la quale preveda che il consumatore, per usufruire dei diritti che gli spettano in forza di tale direttiva, debba denunciare tempestivamente al venditore il difetto di conformità, a condizione che tale consumatore, per procedere a detta denuncia, disponga di un termine non inferiore a due mesi a decorrere dalla data in cui ha constatato tale difetto, che la denuncia cui occorre procedere verta solo sull’esistenza di detto difetto e che essa non sia assoggettata a regole relative alla prova che rendano impossibile o eccessivamente difficile per il citato consumatore esercitare i propri diritti.

Tale possibilità, evidenzia la Corte, “mira a soddisfare l’esigenza di rafforzare la certezza del diritto, incoraggiando l’acquirente ad adoperare una certa diligenza, tenendo conto [de]gli interessi del [venditore], senza istituire un obbligo rigoroso di effettuare un’ispezione meticolosa del bene”.

Il giudice del rinvio si chiede, infine, come funziona la ripartizione dell’onere della prova operata dall’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 1999/44 e, segnatamente, quali siano gli elementi che devono essere dimostrati dal consumatore.

A tale quesito la Corte di Giustizia ha risposto affermando che la norma in esame deve essere interpretata nel senso che la regola secondo cui si presume che il difetto di conformità esistesse al momento della consegna del bene si applica quando il consumatore fornisce la prova che il bene venduto non è conforme al contratto e che il difetto di conformità in questione si è manifestato, ossia si è palesato concretamente, entro il termine di sei mesi dalla consegna del bene. Il consumatore non è tenuto a dimostrare la causa di tale difetto di conformità né a provare che la sua origine è imputabile al venditore. Tale regola può essere disapplicata solo se il venditore prova in maniera giuridicamente sufficiente che la causa o l’origine del difetto di conformità risiede in una circostanza sopravvenuta dopo la consegna del bene.

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