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Lesioni causate da errore medico: da quando decorre il termine per la querela (Cass. Pen. sez. IV se

Con la pronuncia in commento, la Suprema Corte coglie l’occasione per rimarcare la differenza tra momento consumativo del reato e termine di proposizione della querela, confrontandosi con una fattispecie in tema di responsabilità medica.

Il fatto

L’imputato, medico con qualifica di primario del reparto di oncoematologia veniva rinviato a giudizio per una condotta di lesioni colpose aggravate, consistita nell’aver prescritto una terapia chemioterapica ad una paziente e nell’aver omesso di controllare la somministrazione della stessa, affidata ad un infermiere con la vigilanza di uno dei medici del reparto. Fatto avvenuto il 21/01/2005. Nell’esecuzione della terapia, si verificava infatti uno sversamento del liquido chemioterapico nella pleura della paziente, che cagionava così alla stessa lesioni personali (pleurite chimica). Il giorno successivo, 22/01/2005, il primario effettuava un parziale drenaggio del liquido chemioterapico. Il momento consumativo del fatto veniva però identificato in data 08/04/2008, ritenendosi perfezionata in capo all’imputato una condotta omissiva permanente, consistita nell’aver omesso la dovuta rappresentazione del fatto alla persona offesa fino a quella data. La stessa, dopo essere venuta a conoscenza delle risultanze dell’esame spirometrico effettuato nel marzo 2009, per il tramite della relazione medico legale depositata il 14/04/2009, provvedeva a sporgere formale denuncia querela in data 08/05/2009. Il ricorrente veniva dapprima riconosciuto colpevole del reato ascrittogli dal Tribunale di Palermo e, successivamente, anche dalla Corte d’Appello di Palermo, che pronunciava l’ordinanza impugnata.

La decisione

Con il ricorso introduttivo del giudizio relativo alla pronuncia in commento, il ricorrente lamentava, tra le altre cose: il travisamento della contestazione effettuato da parte di entrambe le corti di merito, riferendo la discrasia sussistente tra quanto contestato (condotta commissiva consistita nell’aver somministrato il liquido) e quanto statuito in sede di condanna (condotta omissiva consistita nell’aver omesso di vigilare l’operato dei delegati e nell’aver omesso di adeguatamente informare la paziente sull’entità del danno arrecatole); la mancata constatazione della correttezza e dell’assenza di vizi della delega di funzioni effettuata; la mancata rinnovazione dell’istruzione dibattimentale; l’omessa declaratoria di non doversi procedere per mancanza di tempestiva querela; il mancato riconoscimento di intervenuta prescrizione; il diniego delle circostanze attenuanti generiche e la mancata concessione del beneficio della non menzione. La Corte, pur provvedendo ad annullare senza rinvio la sentenza impugnata ai soli effetti penali, per intervenuta prescrizione, ha provveduto a rigettare il ricorso dell’imputato con riferimento agli effetti civili, effettuando alcune importanti precisazioni circa il rapporto tra momento consumativo del reato, prescrizione dello stesso e tempestività della proposizione della querela. “Occorre preliminarmente considerare che, per costante giurisprudenza di questa Corte, il reato di lesioni personali colpose, di cui all’art. 590 c.p., è un reato istantaneo che si consuma ai momento dell’insorgenza della malattia prodotta dalle lesioni, sicché la durata e l’inguaribilità della malattia sono irrilevanti ai fini della individuazione del momento consumativo. Qualora, però, la condotta colposa causatrice della malattia stessa non cessi con l’insorgenza di questa, ma, persistendo dopo tale momento, ne cagioni un successivo aggravamento, il reato di lesioni colpose si consuma nel momento in cui si verifica l’ulteriore debilitazione (ex multis Cass. Pen. sez. IV, 8 novembre 2011 n. 8904)”. Dopo aver enunciato il principio sopra riportato, la Corte osserva come nel caso in esame non si tratti di in un’ipotesi di permanenza del trattamento medico, dovendosi necessariamente fissare l’insorgenza della malattia al momento dello stravaso del liquido chemioterapico. La condotta colposa deve pertanto ritenersi cessata alla data del 22/01/2005, in cui il primario ricorrente effettuò il drenaggio parziale del liquido, non potendosi qualificare come “condotta colposa causatrice della malattia” il successivo comportamento del medico stesso, che ha omesso di effettuare la dovuta rappresentazione del fatto e delle conseguenze di esso alla persona offesa sino all’aprile del 2008. Tale ulteriore condotta, prosegue la Corte, “[…] potrà aver rilievo ad altri fini ma non può definirsi “causatrice” di una malattia già insorta”. Gli Ermellini proseguono conformandosi sul punto al consolidato orientamento per cui “[…] nel delitto di lesioni personali colpose provocate da responsabilità medica la prescrizione inizia a decorrere non dal momento della commissione del fatto, ma dal momento di insorgenza della malattia "in fieri", anche se non ancora stabilizzata in termini di irreversibilità o di impedimento permanente”, identificando pertanto nella data dell’ultimo intervento medico (22/01/2005) il momento consumativo del reato e, per relationem, il dies a quo di decorrenza della prescrizione (richiamandosi a Cass. Pen. sez. IV, 22/01/2013 n. 21598), osservando come la stessa si sia realizzata in epoca antecedente all’emanazione della sentenza d’appello impugnata. La Corte, inoltre, coglie l’occasione per ribadire come tale orientamento relativo al momento consumativo del reato ed alla decorrenza del termine prescrizionale, non debba trarre in inganno nell’individuazione del termine per la proposizione della querela; esso viene infatti diversamente individuato nella data di deposito della relazione medico legale dell’aprile 2009; non nell’immediatezza del fatto, (gennaio 2005); non nel momento in cui l’imputato ha rappresentato alla persona offesa quanto completamente occorsole (aprile 2008). “Il termine per proporre la querela per il reato di lesioni colpose determinate da colpa medica inizia a decorrere non già dal momento in cui la persona offesa ha avuto consapevolezza della patologia contratta, bensì da quello, eventualmente successivo, in cui la stessa è venuta a conoscenza della possibilità che sulla menzionata patologia abbiano influito errori diagnostici o terapeutici dei sanitari che l’hanno curata" (Cass. Pen. Sez. IV, 07/04/2014 n. 17592). Facendo poi riferimento alla responsabilità in concreto ravvisabile in capo al primario imputato, ed osservando come non possa darsi adito a condanna in sede penale, stante l’intervenuta prescrizione del reato, la Corte coglie l’occasione per ribadire il proprio orientamento in tema di responsabilità medica e principio di affidamento. Viene infatti evidenziato che “[…] garante è il soggetto chiamato alla gestione di uno specifico rischio incarnato da una determinata categoria di eventi; ed è pertanto responsabile sotto il profilo eziologico nel caso in cui tenga condotte omissive che rechino violazione degli obblighi connessi al suo ruolo e determinino l’evento antigiuridico oggetto di protezione (Cass. Pen. Sez. IV, n. 9897 del 2015). Si è altresì affermato che il principio di affidamento non può essere invocato da chi in virtù della sua particolare posizione ha l’obbligo di controllare e valutare l’operato altrui, se del caso intervenendo per porre rimedio ad errore altrui (Cass. Pen. Sez. IV, n. 31241 del 2015)”. Con riferimento specifico alla colpa medica, la Corte ribadisce il principio cardine per l’accertamento del nesso causale, che è ravvisabile solo quando si accerti che “ […] ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento "hic et nunc", questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva[…]”. Nel rammentare tali principi la Corte ha ribadito la correttezza della valutazione fattuale operata dalle corti di merito, che hanno ritenuto sussistere il nesso di causa tra la condotta dell’imputato e le lesioni della persona offesa. Tale ragionamento è stato infatti correttamente espletato osservando come l’avvenuta delega dell’intervento di 12 ore a terzi (infermiere vigilato da medico del reparto) non avrebbe dovuto esimere lo stesso primario dall’obbligo di un “conseguente controllo simultaneo o successivo, purché adeguato alla delicatezza della terapia praticata (tenuto conto del meccanismo d’azione del farmaco e della zona pervasa dall’infusione). Egli avrebbe dovuto, innanzi tutto, vigilare in modo appropriato, perché la somministrazione dei farmaci chemioterapici avvenisse in condizioni di sicurezza […] e soprattutto intervenire tempestivamente dopo essere stato informato dell’errore verificatosi nel corso delle procedure seguite per l’infusione”. Osservando come la responsabilità del sanitario sia rinvenibile anche nella successiva omessa completa informazione della paziente, la S.C. evidenzia la correttezza della valutazione effettuata dal giudice di merito anche facendo riferimento alla qualifica rivestita dall’imputato, precisando che “la veste di primario del reparto giustifica, da sola, la ritenuta responsabilità, in quanto il primario è tenuto a ruolo di supervisione nei confronti degli altri terapeuti presenti nel reparto non potendosi passivamente affidare ma dovendo instaurare un rapporto critico - dialettico con gli altri sanitari, tanto più quando il caso si rivela per qualunque ragione di problematica risoluzione” (Cass. Pen. sez. IV, 07/01/2014 n. 4985).La S.C. conclude poi riferendosi alla sussistenza dell’elemento soggettivo colposo in capo all’imputato, ritenendo evidente la circostanza per cui lo stesso avrebbe violato le norme cautelari di condotta, mentre era da lui esigibile un comportamento assolutamente alternativo rispetto a quello tenuto, come correttamente valutato in sede di merito: “[…], non solo non ha chiesto alcun consenso, non ha annotato nella cartella clinica il secondo intervento, con successiva toracentesi e relativa re-infusione dei liquidi chemioterapici, né tanto meno la rimozione del liquido stravasato, nella relazione di dimissione, né nelle altre cartelle cliniche ordinarie e di Day-Hospital, celando alla paziente gli errori terapeutici, per più di tre anni, così, di fatto, impendendole di scegliere strutture sanitarie o presidi terapeutici diversi”. In tal senso la Corte ha inteso pertanto avallare il ragionamento strutturato in sede di merito, confermando le statuizioni civili ed annullando la sentenza ai soli fini penali per essere il reato estinto per prescrizione.

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