Stalking: gratuito patrocinio sempre ammesso (Cass. Pen. sez. IV sent. 20/03/2017 n. 13497)
In tema di gratuito patrocinio, l’art. 76 del testo unico in materia di spese di giustizia (D.P.R. n. 115/2002) stabilisce che la vittima di una serie di gravi delitti contro la persona, fra i quali il reato di cui all'art. 612 bis c.p. (cd. "stalking"), "può essere ammessa al patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito" previsti dal medesimo decreto.
Cosa vuol dire "può essere ammessa"? Il giudice ha una mera facoltà o ha il dovere di accogliere la domanda di accesso al beneficio?
A queste domande risponde la Corte di Cassazione, Sez. IV Penale, con la sentenza 20/03/2017 n. 13497.
La Corte di Cassazione si è pronunciata circa la discrezionalità concessa al giudice penale sulla ammissione al gratuito patrocinio a spese dello Stato della persona offesa dal reato di stalking nonché dai reati indicati dall’art. 76 c. 4 ter, del D.P.R. 115/2002.
Questa norma, introdotta dalla L. n. 38 del 2009, stabilisce infatti che la “persona offesa” dai reati di maltrattamenti in famiglia, mutilazione degli organi genitali femminili, violenza sessuale, atti sessuali con minorenni, violenza sessuale di gruppo, stalking, nonché, se commessi in danno di minori, da una serie di reati in materia di schiavitù, pornografia e prostituzione, “può essere ammessa al patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito (non superiore a € 11.528,41) previsti dal presente decreto”.
La ratio della norma è sicuramente quella di consentire alle vittime di tali reati di accedere liberamente alla giustizia affinché gli autori degli stessi possano essere sanzionati penalmente dall’ordinamento (soprattutto in un’ottica di tutela della collettività) nonché condannati al giusto ristoro in favore della stessa persona offesa.
Il Giudice della nomofilachia ha stabilito che, tenendo conto di tale scopo, il termine “può” deve essere inteso come dovere del giudice di accogliere l’istanza di ammissione al gratuito patrocinio nel caso in cui essa sia presentata proprio dalla “persona offesa” vittima del reato.
Si potrebbe precisare infatti che se il legislatore avesse utilizzato il termine “deve” avrebbe potuto creare l’obbligo in capo al giudice di ammettere la parte lesa al beneficio de quo anche in assenza di una espressa istanza.
La Suprema Corte ha precisato altresì che la stessa prerogativa non va invece riconosciuta alla eventuale “persona danneggiata” dal reato per espressa previsione legislativa, che fa riferimento solo alla “persona offesa”.
Sul punto è necessario osservare che l’interpretazione restrittiva va sicuramente riferita al solo caso in cui persona offesa e danneggiato dal reato non coincidano.
Ed infatti giova considerare che l’assistenza legale rimunerata dallo Stato è soprattutto quella offerta al soggetto costituito parte civile nel giudizio penale, per cui si cadrebbe in un nonsenso ritenendo questa pronuncia non estesa alla persona offesa che si costituisca per fare valere le sue pretese risarcitorie.
Vale in ultimo concludere evidenziando che in caso di condanna dell’autore dell’illecito lo Stato si potrà rivalere sullo stesso per le spese legali “anticipate” in favore della persona offesa costituita parte civile.