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L’onere probatorio nei rapporti bancari: la prova documentale (Cass. Civ. Sez. I sent. 28/11/2018 n.

La pronuncia della Prima Sezione Civile, qui annotata, si innesta, senza soluzione di continuità, in quel filone della giurisprudenza di legittimità, ormai, invero, consolidatosi, che compie una perimetrazione dell’onere probatorio nell’ambito dei rapporti di conto corrente, definendo una ripartizione sostanzialmente coincidente con l’archetipo codicistico, ex art. 2697 c.c.: distribuzione che, su di un piano più strettamente pragmatico – operativo, si pone in una condizione di conflittualità con l’evidente disparità tra l’ontologica posizione del correntista e quella, antitetica, dell’Istituto di credito, circostanza sostanzialmente elusa, optando per l’archiviazione del criterio di vicinanza della prova e del c.d. “saldo zero”.

L’occasione per questa ricognizione normativa, tra il dato meramente letterale e un’interpretazione più sistematica e applicativa, origina dal ricorso proposto da un Istituto di credito, avverso una sentenza della Corte d’Appello di Catania, che, a giudizio dello stesso ricorrente, violando gli artt. 1832, 1857, 2033, 2220 e 2697 c.c., nonché 633 e 645 c.p.c. e 119 D. Lgs. n. 385/1993, aveva erroneamente provveduto a rideterminare il saldo del conto corrente intrattenuto col resistente e condannato al pagamento dell’importo così ottenuto. In particolare, la Banca ricorrente lamentava una grave violazione della ripartizione dell’onere probatorio e la sostituzione arbitraria del saldo debitore passivo con il “saldo zero”.

Siffatto motivo di ricorso, a giudizio della Prima Sezione Civile si rivela fondato e, pertanto, meritevole di accoglimento.

Premessa necessitata, dell’iter argomentativo adottato dal Collegio è il principio per cui alle controversie insorte tra Banca e correntista, introdotte su domanda del secondo allo scopo di contestare il saldo negativo e di far rideterminare i movimenti e il saldo finale del rapporto (alla luce della pretesa invalidità delle clausole contrattuali costituenti il regolamento pattizio e, così, ottenere la condanna della Banca al pagamento delle maggiori spettanze), gravi su quest’ultimo il corrispondente onere probatorio, attinente agli aspetti oggetto della contestazione. La Prima Sezione, quindi, sceglie scientemente di dare continuità all’orientamento, ormai pressoché granitico, manifestatosi in seno alla giurisprudenza di legittimità, in ossequio del quale il correntista, che agisca in giudizio per la ripetizione dell’indebito, sia tenuto a fornire la prova sia degli avvenuti pagamenti, sia della mancanza, rispetto a questi, di una valida causa debendi, sicché risulti, fondamentalmente, gravato dall’onere di documentare l’andamento del rapporto con la produzione di tutti quegli estratti conto che concorrano a evidenziare le singole rimesse suscettibili di ripetizione, in quanto riferite a somme non dovute.Nel caso di specie, la Corte territoriale aveva affermato che, avendo la Banca versato in atti, in ottemperanza dell’emesso ordine di esibizione, ex art. 210 c.p.c., gli estratti conto inerenti al rapporto, riferiti a un periodo temporale intercorrente tra un momento successivo a quello dell’apertura e la chiusura del conto corrente, il credito fosse rimasto certamente indeterminato nell’an, con riferimento al periodo non attenzionato, compreso tra la data di apertura del conto corrente e il primo periodo refertato: tale mancanza era ascrivibile processualmente allo stesso Istituto di credito, conseguendone l’azzeramento di tutte quelle risultanze negative del primo estratto conto disponibile, in quanto non provate, e che, quindi, contestualmente, il calcolo dei rapporti di dare/avere sarebbe dovuto essere computato a partire dalla prima data documentata, da saldo zero. Una siffatta statuizione si pone in evidente e irriducibile conflittualità con il principio sopra richiamato, introitando, surrettiziamente, nel panorama ordinamentale, in capo al correntista attore un esonero dall’onere probatorio, che risulta illegittimamente traslato sulla Banca convenuta.Il Collegio, a tal riguardo, evidenzia che, se sia vero che la stessa giurisprudenza della Corte di Cassazione, con diverse pronunce, abbia affermato, ma solo con riferimento alle ipotesi in cui la banca sia attrice (e, quindi, consequenzialmente, soggetta all’onere di provare il credito vantato), che s’imponga la rideterminazione del saldo finale mediante la ricostruzione dell’intero andamento del rapporto, sulla base degli estratti conto, a partire dalla sua apertura dell’intero andamento del rapporto, non potendosi, viceversa, ritenere provato il credito in conseguenza della mera circostanza che il correntista non abbia formulato rilievi in ordine alla documentazione prodotta nel procedimento monitorio, corrisponda, parimenti, a verità la circostanza per cui il richiamato orientamento non possa essere fatto ragionevolmente valere in relazione alla diversa ipotesi in cui sia il correntista ad agire con azione di ripetizione dell’indebito e sia, pertanto, ontologicamente (in quanto parte attrice) gravato dell’onere di provare la pretesa creditoria fatta valere, attraverso la produzione degli estratti conto relativi all’intero periodo del rapporto, cui si riferisca la domanda d’indebito. Di conseguenza, non può neppure legittimamente ritenersi (come, invece, erroneamente statuito dalla Corte territoriale nel caso di specie) che, qualora il primo estratto conto disponibile, sia pure in ottemperanza di un ordine giudiziale di esibizione rivolto alla banca, ex art. 210 c.p.c., evidenzi un saldo negativo, il calcolo dei rapporti di dare e avere tra correntista e banca decorrano dalla data della posta iniziale a debito annotata nel primo estratto conto disponibile, previo azzeramento di detto saldo negativo in quanto non provato, dovendo, invece, detto calcolo essere effettuato proprio partendo dal primo saldo a debito del cliente documentalmente riscontrato.

La statuizione cui perviene la Prima Sezione, lungi dall’avere una portata normativamente dirompente e dall’inaugurare un filone più “intraprendente” nella lettura dinamica dei rapporti bancari tra Istituto e correntista, si inserisce, come già anticipato in premessa, in quell’alveo di ermeneutica rigidamente letterale e codicistica, che, perlomeno astrattamente, potrebbe penalizzare la posizione del cliente – correntista.

La lettura fornita dal Collegio è, in un certo qual senso, in egual misura, tradizionale e limitativa, perché, esattamente come le precedenti attestazioni, si specchia nella certificazione dell’inderogabilità, anche in materia bancaria e finanziaria, dell’archetipico principio di ripartizione dell’onere probatorio, delineato, laconicamente, dall’art. 2697 c.c.: chiunque voglia far valere, in giudizio, un proprio diritto deve addurre elementi tali da comprovare le circostanze fattuali fondative, e, del tutto specularmente, chi voglia eccepire l’inefficacia dei fatti addotti (ovvero la modificazione o l’estinzione del diritto) deve provare i fatti sui quali l’eccezione si fondi. Un’equilibratura statica, quasi laboratoriale, ma che mal si attaglia con la connaturata disparità fisiologica (nonché contrattuale) tra i due poli del rapporto.

Come rilevato prontamente da autorevole dottrina, conseguenza diretta e immediata dell’impostazione proposta dalla Cassazione è che, qualora l’attore – correntista proponga (come nel caso di specie) una domanda di accertamento negativo del credito, risultante dal saldo passivo di un rapporto di conto corrente bancario, nonché di ripetizione dell’indebito, relativamente agli interessi pagati in eccedenza rispetto al dovuto, e l’Istituto di credito convenuto, a sua volta, formuli domanda riconvenzionale (non limitandosi, dunque, a chiedere solo il rigetto della pretesa attorea) per conseguire il credito negato dalla controparte, si addiverrebbe alla situazione, per certi versi paradossale, che entrambe le parti processuali risultino gravate dall’onere di provare la fondatezza delle rispettive confliggenti pretese. La giurisprudenza di legittimità ha sostanzialmente incardinato, nel più pedissequo rispetto dei canoni codicistici, in capo alla parte attrice, qualunque essa sia, l’onere probatorio di produrre (e, quindi, allegare) tutti gli estratti conto relativi alla durata integrale del rapporto (oltre che, di provare, specificamente, la presunta esistenza e corrispettiva entità dell’indebita appostazione di passività).

Questo contenuto ricognitivo e letterale è da assumersi, pur tuttavia, come premessa necessitata di un’indagine a più ampio spettro, che, transitando su di un piano più strettamente funzionale, possa valutare l’atteggiarsi concreto dell’onere della prova, tra l’impianto codicistico e una sua ermeneutica fattivamente manutentiva.

A prescindere dalla formale e formalistica ripartizione e distribuzione dell’onus probandi, non si può certamente eludere una lettura improntata alla diversa posizione di partenza propria dei due contendenti processuali, che, sebbene non possa, senz’altro, affermarsi che la prova del carattere solutorio di una rimessa possa presentare, di per sé, profili di particolare difficoltà per la Banca (stante i mezzi di cui la stessa fisiologicamente dispone, in ragione dell’attività d’impresa esercitata), non può, comunque, tramutare la qualificazione officiosa dell’Istituto di credito quale “contraente forte” in una ripartizione totalmente iniqua dell’onere probatorio: la disparità lapalissiana sul piano sostanziale non deve ragionevolmente avere alcuna incidenza sulle dinamiche, parallele, di accesso alla prova, da parte del soggetto privato.

La soluzione proposta dalla Cassazione, pur non essendo esente da profili di criticità, lungi dal rappresentare un’irreale posizione di parità tra i due soggetti, ha la premura di limitare e contenere un intervento, senza dubbio, invasivo sul piano processuale, mirato a una riequilibratura manutentiva del piano sostanziale, che è contiguo, ma, al contempo, non amalgamabile al primo. L’applicazione rigida del criterio di riparto codicistico, peraltro, non rischia di tradursi neppure in una negazione, tranchant, della tutela riconosciuta alla parte debole del rapporto, che, viceversa, continua a rappresentare asintoto valido del sistema, improntato a un diffuso paternalismo legislativo; l’unica preoccupazione è non snaturare il complesso quanto sensibile equilibrio procedimentale, traghettando surrettiziamente discipline sostanzialistiche in ambito processuale.

La produzione integrale della documentazione, gravante sul cliente – attore, è, peraltro, opera monumentale meno di quanto, prima facie, possa apparire, concorrendovi meccanismi di normazione atti a smussarne i profili più problematici. Trattasi, quindi, di una probatio diabolica “servoassistita”.

A tal riguardo, l’art. 119, c. 4, TUB introita, nel panorama ordinamentale, la possibilità per il cliente, per colui che gli succeda a qualunque titolo e per colui che subentri nell’amministrazione dei suoi beni, di ottenere, a proprie spese, entro un congruo termine e comunque non oltre novanta giorni, copia della documentazione inerente a singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni, specificando puntualmente che al richiedente possano essere addebitati solo i costi di produzione di tale documentazione. La pretesa di ricevere copia della documentazione bancaria si configura alla stregua di un diritto autonomo, riconosciuto al cliente, che, pur derivando dal contratto, resta estraneo alle obbligazioni tipiche che ne costituiscono lo specifico contenuto: origina, difatti, dai generali obblighi di buona fede, correttezza e solidariet, accessori a ogni prestazione contrattualmente dedotta e consente alla parte interessata di conseguire ogni utilità programmata (anche oltre quelle riferibili alle prestazioni convenute), proprio in quanto prestazione ulteriore, direttamente imposta ex lege a ciascuna delle parti contraenti.Ciò premesso, pare opportuno, se non addirittura necessario, dare menzione dell’importante revirement cui è pervenuta recentemente la giurisprudenza di legittimità, nella compenetrazione delle possibilità di ottenimento della documentazione contabile stragiudiziali con quelle, contrariamente, propriamente corroborate da provvedimento giudiziale. Il riferimento è, segnatamente, alla problematica coesistenza del dettame dell’art. 119 TUB con l’ordine di esibizione documentale, ex art. 210 c.p.c.- Il c. 4 della disposizione del TUB, è, senz’altro, una norma importante, dal momento che, come anticipato, è finalizzata a consentire al cliente di poter recuperare, con una “relativa facilità”, quanto, per le più disparate causa, abbia perduto, incentrando la sua efficacia propria su quella fisiologica vicinanza della Banca alla disponibilità, sempiterna (o quasi) della documentazione. Rappresenta, in sostanza, un meccanismo eterodiretto di riavvicinamento del cliente alle prove documentali inerenti il rapporto intercorso, nel tempo, con l’Istituto di credito. Centrando più accuratamente il focus dell’approfondimento, ai fini che qui più interessano, nell’assegnare puntualmente al cliente (così come a colui che gli succeda a qualsiasi titolo e/o che subentri nell’amministrazione dei suoi beni) la facoltà di ottenere opportuna documentazione dei propri rapporti bancari, l’art. 119 TUB non contempla, né, tantomeno, dispone, di per sé, nessuna limitazione in qualche modo attinente alla fase di eventuale svolgimento giudiziale dei rapporti tra correntista e Istituto di credito: risulterebbe, peraltro, priva di ogni ragione giustificatrice, una limitazione forzosa dell’esercizio di un diritto (quale quello di richiedere copia della documentazione comprovante l’andamento del rapporto creditizio) in un determinato range temporale (ovverosia, necessariamente antecedente all’instaurazione del processo). Limitare una siffatta possibilità equivarrebbe a mutare l’intrinseca natura della disposizione de qua, da presidio (invero tra i più importanti) a tutela del cliente – investitore, in un primo e più immediato momento, e della trasparenza, quale valore sovraordinato e sistematico, a costrizione fortemente penalizzante dello stesso, con una sottesa trasformazione di quella congeniata originariamente come facoltà in un vero e proprio onere prodromico alla successiva azione giudiziaria. In maniera non dissimile e sempre in un’ottica di efficientamento, l’esercizio della facoltà de qua non è neppure subordinato al rispetto di determinare formalità espressive o di date vesti documentali, poiché anche siffatte imposizioni si tradurrebbero in ingiustificati appesantimenti, non previsti dalla legge e frontalmente confliggenti con l’immediatezza connaturata all’istituto. L’unico vincolo, legittimamente rinvenibile, permane, quindi, la necessità di formulare l’istanza, per un’esigenza d’indubbia ottimizzazione della stessa, nella fase istruttoria del processo cui accede. In maniera pressappoco distonica, la stessa giurisprudenza di legittimità, statuendo che tra gli atti di cui si chieda la specifica esibizione non possano essere inclusi gli estratti conto dei rapporti bancari (laddove siano genericamente mirati alla ricostruzione della contabilità del rapporto di conto corrente), senza che ne venga addotta specificamente l’utilità della loro acquisizione, ai fini della dimostrazione della domanda giudiziale, introduce, di fatto, un contingentamento della facoltà de qua; sarebbe, infatti, fuorviante compiere un’operazione ermeneutica che conduca al principio c.d. “di prossimità” (o vicinanza della prova) l’assunto per cui debba essere sempre l’Istituto di credito convenuto a dover fornire la documentazione che il cliente – correntista ha periodicamente ricevuto, ma, per negligenza, non conservato.Sebbene sia evidente come il principio de quo si ponga come criterio di costruzione probatoria diverso da quello dell’onere secondo allegazione e, quindi, rappresenti, in attuazione dell’art. 24 Cost., una fattiva attenuazione del rigore della ripartizione probatoria, ex art. 2967 c.c., stabilendo che la mancata dimostrazione di una circostanza fattuale, rimasto incerta nel giudizio, debba essere “addossata” alla parte che si sarebbe dovuta trovare nelle migliori condizioni per provarla, siffatto meccanismo solutorio non può trarre semplicistica legittimazione unicamente dalla disparità economica delle parti, ovverosia non può irragionevolmente esaurirsi nella diversa forza economica, evidente ictu oculi, intercorrente tra contendenti, ma deve, invece, esigere l’impossibilità della fisiologica acquisizione. Che sia possibile, aderendo all’inaugurato filone interpretativo, presentare la richiesta stragiudiziale anche a giudizio pendente non è circostanza da confondersi con la facoltà istruttoria di richiedere l’esibizione documentale della rendicontazione contabile. La richiesta de qua, infatti, non può, parallelamente, assumere ruolo suppletivo della carenza documentale a supporto della domanda attorea e, quindi, dell’inerzia dello stesso correntista: il mezzo istruttorio, infatti, non può essere funzionalizzato, in maniera evidentemente distorsiva, al superamento delle inadempienze istruttorie di una parte che avrebbe potuto, al di fuori e prima del giudizio, ottenere la documentazione. Di tal guisa, è evidente sottolineare come sia da considerarsi inammissibile l’ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c. di un documento del quale non si conosca l’esistenza effettiva o che la parte avrebbe potuto richiedere stragiudizialmente, non avendolo, invece, fatto. Situazione significativamente diversa sarebbe, invece, quella in cui all’istanza correttamente presentata dal cliente l’Istituto abbia opposto un diniego (o un silenzio) ingiustificato, lasciando inevasa la richiesta: condotta che, appalesandosi improntata a un’evidente negligenza ed essendo in aperto contrasto con i suesposti principi di buona fede e correttezza nelle relazioni contrattuali, potrebbe concorrere a un perentorio recupero dei corollari della vicinanza della prova, in particolare di quello comportante l’addebito del mancato raggiungimento dell’allegazione documentale.La rilevata esigenza di specificità, imposta dall’art. 94 disp. att. c.p.c., assume maggior rilievo con riferimento a un ordine di esibizione emesso nei confronti delle Banche, stante l’indubbia sensibilità degli interessi sottostanti: posto, infatti, che indefettibile condizione di ammissibilità dell’istanza sia, ai sensi del combinato disposto degli artt. 118 e 210 c.p.c., l’inidoneità a procurare grave nocumento, una richiesta “esplorativa” (ovverosia, non necessaria e che, quindi, non si diriga in via diretta e immediata all’accertamento delle circostanze fattuali) concorrerebbe a determinare un pregiudizio del diritto alla riservatezza, per la divulgazione di notizie estranee alla causa e che, in quanto tali, i soggetti interessati avrebbero legittimo interesse a mantenere private e segrete. L’ordine di esibizione, in definitiva, può essere impartito a una delle parti del processo, con esclusivo riferimento ad atti la cui acquisizione sia oggettivamente necessaria per lo sviluppo del procedimento, nonché ove questi siano concernenti la controversia; deve trattarsi, quindi, di documentazione puntualmente individuata (o, quantomeno, individuabile), con un contenuto preciso e, in qualche modo, rilevante ai fini della risoluzione della controversia.

In definitiva, pur con la convinta adesione della giurisprudenza di legittimità all’archetipo codicistico della ripartizione di stampo codicistico dell’onere probatorio (con un ripetuto e avvalorato diniego, quindi, verso una responsabilizzazione probatoria “da posizione”), il sistema ordinamentale pare coerentemente improntato a un bilanciamento, borderline tra il giudiziale e lo stragiudiziale, che, pur non sovvertendo i canoni processuali classici (art. 2697 c.c.) fornisce all’utente asseritamente in posizione svantaggiata gli strumenti (artt. 119 TUB e 210 c.p.c.), i principi generali (buona fede e correttezza, nell’esecuzione contrattuale, ai sensi dell’artt. 1374 – 1375 c.c.), che, associati a oneri puntuali normativamente imposti alla controparte contrattuale forte (su tutti, la tenuta delle scritture contabili, da leggere sempre in chiave paternalistica, di fattiva cooperazione e collaborazione), concorrono a manutenere il delicato sinallagma contrattuale. La conclusione cui si giunge, senza aggravi per nessuna delle due parti del rapporto, è, all’interno di una lettura dinamica e funzionalmente diretta, che debba essere il titolare del diritto di cui si chieda l’accertamento a doverne comprovare, diligentemente, la fondatezza, qualunque sia la tipologia di controversia

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