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No della Cassazione all'uso delle tabelle di Milano in caso di perdita parentale

(Cass. Civ., sez. III, sent. 10/11/2021, n. 33005)

Il danno da perdita del rapporto parentale consiste nella sofferenza patita per la scomparsa di una persona cara avvenuta a causa di un fatto illecito che ha profondamente alterato il complessivo assetto familiare-affettivo.

Tale condotta antigiuridica è suscettibile di procurare svantaggi ad una molteplicità di soggetti più o meno prossimi al danneggiato (1), motivo per cui tra le tantissime figure di illecito plurioffensivo, l'uccisione di un parente ne costituisce sicuramente la fattispecie per antonomasia oltre a manifestarsi sempre quale thema decidendum delle pronunce supreme che hanno rivoluzionato la materia del risarcimento del danno non patrimoniale.

Già negli anni Sessanta la Suprema Corte aveva sentito la necessità di riconoscere ai congiunti un diritto proprio alla riparazione del dolore sofferto, ed in generale del danno morale ad essi derivante a seguito della morte della vittima, qualora "i rapporti di stretta parentela con la medesima, le loro condizioni personali, le particolari circostanze del caso concreto rivelino che la scomparsa del loro congiunto abbia cagionato un grave perturbamento della vita familiare e del loro animo per il venir meno di un valido sostegno morale: perturbamento che, così qualificato, è meritevole di apprezzamento e di riparazione".

La Suprema Corte in forza di una lettura costituzionalmente orientata del disposto dell'art. 2059 c.c. ha affermato, con due pronunce gemelle in materia di danno non patrimoniale da perdita o modificazione in peius del rapporto parentale (Cass. n. 8827 e n. 8828 del 2003), la risarcibilità dei cosiddetti "danni riflessi" o di "rimbalzo" subiti dai congiunti a seguito della morte del soggetto leso, ampliando la categoria dell'istituto anche ai casi in cui la vittima dell'illecito sia sopravvissuta alle lesioni, purché la sofferenza si presenti come effetto dell'evento e rispetti il criterio della regolarità causale.

L'istituto in esame non è risarcibile in re ipsa, ma per ottenere detto "ristoro" occorre dimostrare l'esistenza di un pregiudizio effettivo provato attraverso presunzioni semplici o massime di comune esperienza nonché attraverso allegazioni che concernono fatti precisi e specifici del caso concreto. Di tal ché non è da escludere che la perdita del congiunto non cagioni alcun danno reale ai familiari.

Il danno non patrimoniale proprio perché incide su valori della persona non connotati da rilevanza economica risulta di difficile liquidazione.

Alla problematica sottesa all'istituto in esame soccorre l'art. 1226 c.c., cui rinvia l'art. 2056 c. 1 c.c., secondo il quale una volta raggiunta anche solo in via presuntiva la prova dell'esistenza del danno non patrimoniale la relativa liquidazione è rimessa alla valutazione equitativa del giudice.

Tuttavia, occorre rilevare che tale soluzione non assicura l'uniformità di trattamento in quanto non garantisce che un'identica lesione venga liquidata nei medesimi termini monetari.

Per sopperire a ciò il legislatore è intervenuto prevedendo la predisposizione di tabelle in base alle quali procedere alla quantificazione economica delle menomazioni all'integrità psicofisica.

Orbene, a fronte della mancata approvazione della tabella unica e della conseguente proliferazione, nella prassi giudiziale, di una molteplicità di criteri di quantificazione del danno patrimoniale che inevitabilmente facevano sorgere disparità nei valori liquidati, la Suprema Corte, fino a qualche tempo addietro, ha ritenuto di poter indicare che i criteri legali di quantificazione del danno non patrimoniale da "micropermanenti" dettati dall'art. 139 D.Lgs. n. 209/2005 trovano applicazione solo se queste ultime sono conseguenza di sinistri stradali, e che in tutti gli altri casi il danno non patrimoniale conseguente a lesioni all'integrità psico-fisica deve liquidarsi, affinché la relativa quantificazione possa ritenersi "equa", facendo riferimento ai criteri indicati nella tabella per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da lesione all'integrità psico-fisica, predisposta dall'Osservatorio sulla giustizia civile del Tribunale di Milano.

Oggi però, gli Ermellini con sentenza in commento hanno bocciato nettamente le tabelle Milanesi che si limitavano a prevedere un importo minimo ed uno massimo con una forbice piuttosto ampia e, tornando sul tema in esame, precisano i criteri di liquidazione. Invero, ritengono che le suddette tabelle non siano idonee a quantificare il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale perché in relazione ad esso non seguono il meccanismo del punto, ma si limitano ad individuare un tetto minimo e un tetto massimo, senza predeterminare criteri utili a stabilire, entro il range indicato, l'importo esatto da liquidare.

La vicenda prende le mosse dal decesso di un paziente cagionato da un errore medico che ha indotto gli eredi del de cuius a adire il Tribunale di Nocera Inferiore al fine di ottenere il risarcimento del danno per la morte del congiunto.

Si costituirono i convenuti chiedendo il rigetto della domanda e chiamando in causa le rispettive società assicuratrici. Il giudice di prime cure accoglieva parzialmente la domanda, liquidando il danno non patrimoniale per un importo pari ad € 30.000,00 in favore del coniuge e € 20.000,00 per ciascuno dei figli, motivando tale dictum attraverso una valutazione che ha tenuto conto del grado e dell'intensità del rapporto parentale intercorrente tra il de cuius e gli istanti, l'età dello stesso e la mancata deduzione e, ancor di più, la mancanza di ulteriori elementi di valutazione e considerando per la moglie la circostanza della convivenza, poiché aveva con più intensità subito il dolore per la perdita del congiunto.

Avverso tale provvedimento proposero appello tanto le società assicuratrici, quanto gli attori. Il giudice del gravame rigettò gli appelli sulla scorta del fatto che gli eredi non avessero assolto all'onere di produzione delle Tabelle di Milano pur avendone chiesto l'applicazione e, per quanto attiene la liquidazione equitativa del danno, mentre in primo grado il giudice aveva valorizzato il diverso grado e intensità del rapporto parentale nonché l'età del de cuiuis, gli appellanti non avevano fornito alcuna specifica doglianza idonea a contrastare la ragione della decisione né avevano addotto deduzioni in ordine alla natura ed entità dello sconvolgimento delle abitudini familiari. La causa giungeva così in Cassazione.

La Suprema Corte, pur accogliendo la censura relativa alla non necessità di produrre in giudizio delle Tabelle di Milano e accogliendo altresì la doglianza relativa all'arbitrarietà della quantificazione del danno, ha cassato, puntualizzando che nel giudizio di rinvio l'autorità competente dovrà liquidare il danno sulla scorta di una tabella diversa da quella di Milano in quanto la suddetta tabella non risponde ai requisiti indicati in punto di perdita del rapporto parentale.

Al termine del ragionamento logico-giuridico la Corte enuncia i seguenti principi di diritto:

- "ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale mediante il criterio tabellare il danneggiato ha esclusivamente l'onere di fare istanza di applicazione del detto criterio, spettando poi al giudice di merito liquidare il danno non patrimoniale mediante la tabella conforme a diritto;"

- "al fine di garantire non solo un'adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l'uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul sistema a punti, che preveda oltre l'adozione del criterio a punto, l'estrazione del valore medio del punto dei precedenti, la modularità e l'elencazione delle circostanze di fatto rilevanti, tra le quali, da indicare come indefettibile, l'età della vittima, l'età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonché l'indicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull'importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l'eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella".

Alla luce del raffinato ragionamento giuridico la Corte, seppur non espressamente, chiarisce che che il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo la Tabella Capitolina. Per vero, il sistema consente un'adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto e, nello stesso tempo, garantisce l'uniformità di giudizio al cospetto di vicende analoghe.


(1) Il presupposto di fondo utilizzato per accordare ai congiunti di un soggetto ucciso il diritto ad ottenere iure proprio dal danneggiante il risarcimento del pregiudizio sofferto è stato il riconoscimento dei diritti della famiglia ex art. 29 Cost. La Corte di Cassazione con una giurisprudenza pressoché consolidata ha ritenuto doveroso estendere il diritto alla riparazione del pregiudizio anche a soggetti estranei al ristretto nucleo familiare. Per il riconoscimento dei pregiudizi subiti da congiunti non appartenenti alla famiglia nucleare del de cuius, il Supremo Collegio ha però richiesto la dimostrazione della convivenza. V., ad esempio, le sentt. n.10823 dell'11/05/2007; n. 16018 del 07/07/2010; n. 1410 del 21/01/2011; e soprattutto n. 4253 del 16/03/2012, nella quale si è stabilito che "il fatto illecito costituito dall'uccisione del congiunto dà luogo ad una danno non patrimoniale presunto, allorché colpisce soggetti legati da uno stretto vincolo di parentela …, perché invece possa ritenersi risarcibile la lesione del rapporto parentale subita da soggetti estranei a tale ristretto nucleo familiare (quali nonni, nipoti, il genero, o la nuora) è necessario che sussista una situazione di convivenza, in quanto connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l'intimità delle relazioni di parentela allargata … solo in tal modo assumendo rilevanza giuridica il collegamento tra danneggiato primario e secondario, nonché la famiglia intesa come luogo in cui si esplica la personalità di ciascuno, ai sensi dell'art. 2 Cost.". Dopo qualche mese, tuttavia, la stessa III Sez. Civ., con la pronuncia n. 14931/2012, e successivamente anche la III Sez. Pen., con la sentenza n. 29735 dell'11/07/2013, ha considerato di secondaria importanza la coabitazione (poiché, come si legge in quest'ultima decisione, "in termini di risarcimento del danno non patrimoniale per perdita del congiunto, nella specie nonno-nipote, non può ritenersi determinante il requisito della convivenza, poiché attribuire a tale situazione un rilievo decisivo porrebbe ingiustamente in secondo piano l'importanza di un legame affettivo e parentale la cui solidità e permanenza non possono ritenersi minori in presenza di circostanze diverse, che comunque consentano una concreta effettività del naturale vincolo nonno nipote"). E quantunque già alcune precedenti pronunce (come la n. 15019/2005, cit.; e la n. 1203/2007, cit.) avessero sposato questo indirizzo, con le sentenze n. 1025 del 17/01/2013; n. 23917 del 22/10/2013; e n. 17006 del 25/07/2014 (della Sez. Lav.), il Supremo Collegio è tornato alla vecchia impostazione. Hanno aderito all'orientamento restrittivo il Tribunale di Milano oltre che la Corte di Appello di Milano (per la quale, la madre non convivente "certo ha ragione di dolersi del peggiorato stato di salute del figlio, ma…non convivendo con costui… non ha visto mutate le proprie condizioni di vita") e il Tribunale di Taranto. Favorevoli ad una interpretazione più elastica sono apparsi, viceversa altre corti di merito (Trib. Roma; Trib. Lucca; Trib. Modena; Trib. Pisa). La recente pronuncia della Suprema Corte n. 21230 del 20/10/2016 ha, comunque, ritenuto definitivamente superata la regola stabilita dalla vecchia (e assai criticata in dottrina) giurisprudenza, che ancorava il risarcimento del danno non patrimoniale da lesione del rapporto parentale ad "un elemento estrinseco, transitorio e del tutto casuale quale è quello della convivenza, di per sé poco significativo, ben potendo ipotizzarsi convivenze non fondate su vincoli affettivi ma determinate da necessità economiche, egoismi o altro e non convivenze determinate da esigenze di studio o di lavoro o non necessitate da bisogni assistenziali e di cura ma che non implicano, di per sé, carenza di intensi rapporti affettivi o difetto di relazioni di reciproca solidarietà". Secondo tale sentenza, la convivenza va considerata solo un "elemento probatorio utile, unitamente ad altri elementi, a dimostrare l'ampiezza e la profondità del vincolo affettivo che lega tra loro i parenti e a determinare…il quantum debeatur", anche perché far dipendere la liquidazione del pregiudizio in questione dalla "convivenza tra il congiunto non ricompreso nella cd. famiglia nucleare e la vittima potrebbe essere foriero di un automatismo risarcitorio sicuramente da bandire".

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